EDITORIALE – Forse il panorama musicale mondiale non è mai stato così vario come nei primi anni ’80. Nuove mode, nuovi modi di concepire la società, stili diversi e tanta sperimentazione. in particolare il rock si lanciava verso una onda che andava a contrastare l’avvento della nascente discomusic, quella new wave o synth pop chiamata a unire le atmosfere rock e punk agli arrangiamenti dell’elettronica.
Ed è in questo contesto che unna donna androgina, capelli rosso fuoco tagliati a spazzola, una maschera nera, lascia intuire uno sguardo intenso che sfida l’ascoltatore. Così Annie Lennox ci da il benvenuto nel mondo degli Eurythmics, un duo che ha saputo sfidare le convenzioni e abbattere i generi.
E’ la fine degli anni ’70 quando Dave Stewart conosce in un ristorante una giovane cameriera con ambizioni da cantante, proprio Annie Lennox. I due intrecciano una relazione sentimentale e professionale: nascono così prima i Catch, poi i Tourists. La leggenda vuole che gli Eurythmics prendano vita poco dopo, nel 1980, in una stanza d’albergo australiana quando Dave Stewart scopre l’elettronica, giocando con un sintetizzatore. Annie e Dave si stanno separando sentimentalmente, ma l’elettronica permette al duo inglese di fare coppia senza terzi incomodi musicali, svincolandosi dalle complesse dinamiche che regolano le band, e che avevano frenato i Tourists.
I due abbandonano così il punk e gli altri musicisti, per mettersi a giocare da soli con i suoni elettronici, frequentando quel genere che va verrà chiamato “Techno-pop” o “Synth-pop”. Battendo questa strada gli Eurythmics arrivano già al successo secondo disco, nel 1983: “Sweet dreams (are made of this)” contiene quella title-track che diventerà un classico, e che porterà la band in testa alle classifiche sia in Inghilterra che negli stati Uniti, nonché sulla copertina di Rolling Stone.
Il duo si precipita così a registrare il successore, agli studi The Church a Londra, messi in piedi dallo stesso Stewart con i soldi delle vendite del disco precedente.
E così 10 mesi dopo “Sweet dreams”, il 28 novembre dell’83, il nuovo album “Touch” è nei negozi. Questo lavoro emerge come con un disco misteriosamente profondo, un disco che è diretto senza essere banale, all’avanguardia senza essere inaccessibile.
“Gli Eurythmics stanno creando qualcosa che senza dubbio è nuova”, scrisse al tempo dell’uscita Rolling Stone, centrando in pieno l’unicità dell’album. Fin dal primo singolo, “Who’s that girl”, uscito già a giugno come singolo apripista, la band replica i fasti di “Sweet dreams”, con un misto di melodia e mistero: una voce delicata, un synth, fino all’entrata della parte ritmica e all’accelerazione.
Ancora più misteriosa e cupa è “Here comes the rain again”, dove il synth si incrocia con archi e chitarre elettriche (nel disco Stewart è accreditato, oltre che per la produzione, anche per voci, dulcimer, basso, chitarra, tastiere, xylofono, e programmazione di tastiere e sequenze).
“Right by your side” è invece stranamente solare, con ritmi caraibici, mentre “Fist cut” è un funky rivisitato in chiave elettropop.
Nessuna canzone di “Touch” dura meno di 4 minuti, e la finale “Paint a rumour” arriva a sette e mezzo, con un ritmo che sa di Kraftwferk in chiave pop: già questo la dice lunga sull’unicità di questo album e degli Eurythmics: pop, ma con un taglio obliquo, dove diversi elementi rientrano nell’immagine.
“Touch” è un disco storico per diversi motivi, non solo musicale: fu uno dei primi ad essere pubblicati contemporaneamente su vinile e su CD, allora un formato emergente. Arrivò al numero 1 nel Regno Unito, e in top 10 in America, dove superò il milione di copie vendute. Nel 1984 la band ne pubblicò una versione dance, con le canzoni remixate: segnò la fine di una fase nella carriera del gruppo.
Nel disco successivo, “Be yourself tonight” dell’85, gli Eurythmics si sarebbero dati al rock in maniera più decisa. Ma “Touch” rimane uno dei punti più alti non solo della carriera del duo, ma di tutto il synth-pop e il pop di quel periodo.