#TellMeRock, i sessantuno anni di “The Times they are a changin”: Bob Dylan che canta gli Usa tra sociale, lavoro e guerra

EDITORIALE – I tempi stanno cambiando, o meglio, stanno peggiorando. Il giovane Dylan, dopo la buona prova offerta con “The Freewheelin’ Bob Dylan”, cambia poco e osa molto: musiche sempre molto semplici (gli accordi di chitarra sono sempre quei tre, l’armonica, per quanto micidiale, è statica e ripetitiva), testi feroci e controcorrente. Un modo per esprimere tutta la propria rabbia (e tutta la propria inquietudine) contro un mondo violento e palesemente inumano. Non è un album capolavoro, ma è forse il lavoro più politico, e in qualche modo più controverso, di un Bob Dylan massacrato dai dubbi, dalle speranze e dagli ideali forse traditi. Il gioco questa volta si fa duro: niente concessioni alla poesia o alla retorica, solo disgusto e rabbia. L’occasione per mettere tutto in note arriva nell’estate del 1963, quando Bob Dylan firma un testo di presentazione per il festival folk di Newport.

Scrive che ai tempi del suo idolo Woody Guthrie le scelte erano facili e c’erano solo due vie da percorrere, quella americana oppure quella fascista. Ma in quel 1963, con la battaglia per i diritti civili che infuria in Alabama, gli omicidi politici, la situazione incandescente nel Sudest asiatico e la Guerra Fredda, «quei due aspetti così semplici da capire si sono frantumati, sono scoppiati, esplosi così spaventosamente forte che a noi oggi è rimasto solo questo grande, ondeggiante cerchio complicato».

Dylan dà così un suono a quei tempi complicati nell’album “The times they are a-changin’”, sessantuno primavere compiute lo scorso 13 gennaio, il suo tentativo di catturare lo spirito culturale americano usando solo materie prime, il folk e il blues. Inciso fra l’estate e l’autunno del 1963, pubblicato nel gennaio del 1964, è il suo disco più politicizzato, una raccolta di pezzi per voce, chitarra e armonica in cui la tradizione è usata per narrare fatti di cronaca e raccontare il clima ideale, politico e culturale di quel periodo turbolento.

“The times they are a-changin’” è come già accennato scarno, crudo, diretto. Poetico, ma un po’ cupo, come la copertina in bianco e nero. Il folksinger dalla faccia di bambino che stringeva la chitarra sulla cover dell’esordio e il ragazzo infreddolito stretto teneramente alla fidanzata in “Freewheelin’” lasciano il posto a un giovane accigliato, che guarda di sbieco chissà cosa, l’espressione indurita colta dal fotografo Barry Feinstein, il marito di Mary Travers del trio Peter, Paul and Mary. Quando nell’agosto 1963 Dylan entra in sala d’incisione a New York col produttore Tom Wilson è una piccola star del giro folk grazie all’esibizione estiva a Newport dove s’è imposto come voce degli oppressi d’America, un’etichetta di cui si sbarazzerà piuttosto velocemente. Altre session si tengono in ottobre, dopo un tour al fianco di Joan Baez, che sta usando tutta la sua influenza per lanciare la carriera dell’amico. I turni di registrazione, sei in tutto, sono produttivi. Oltre alle dieci canzoni che compaiono nel 33 giri originale è registrata un’altra dozzina di pezzi, che a partire dagli anni ’80 entreranno a far parte di varie pubblicazioni antologiche.

“The times they are a-changin’”, la canzone, stabilisce subito l’atmosfera tesa e apocalittica del lavoro. È una chiamata alle armi e un atto d’accusa, un pezzo epocale che in 250 parole definisce meglio di qualunque saggio concetti come la necessità del ricambio generazionale e l’inevitabilità del cambiamento. Dylan usa immagini semplici e potenti – l’acqua che sale, i parlamentari che bloccano l’ingresso – e infonde alla canzone un fervore quasi religioso, arrivando a citare la Bibbia («I primi di oggi saranno gli ultimi di domani»). Il cambiamento cantato da Dylan è un fiume che tracima e porta via tutto, con violenza. Il folk ne è la colonna sonora. “Il movimento per i diritti civili e il movimento del folk revival erano una cosa sola”, dirà l’autore a Cameron Crowe.

La Storia è protagonista di “With God on our side”, che musicalmente s’ispira al traditional “The merry month of May”. Qui il folksinger punta il dito contro la pretesa che Dio sia dalla parte degli uomini che fanno la guerra, dallo sterminio dei nativi americani ai conflitti mondiali, con un finale positivo: “Se Dio è dalla nostra parte, fermerà la prossima guerra”.

Gran parte dei pezzi di “The times they are a-changin’” narrano però piccole storie, con la esse minuscola, spesso vicende dai risvolti violenti.

Come “Ballad of Hollis Brown”, un quadro di tremenda povertà ambientata nel South Dakota che finisce con il capofamiglia, contadino stremato dalle privazioni, che uccide moglie e cinque figli prima di suicidarsi, una tragedia da pagina di cronaca nera che Dylan trasforma senza pietismi in una favola gotica ispirata all’antica ballata “Pretty Polly”.

Oppure “North country blues” in cui il declino dell’industria estrattiva è visto dal punto di vista della moglie di un minatore.

Fatti di cronaca diventano canzoni come “The lonesome death of Hattie Carroll”, sulla lieve pena comminata al figlio di un notabile bianco che ha ucciso una donna di colore, e “Only a pawn in their game”, nata dopo l’assassinio dell’attivista Medgar Evers, leader per il Mississippi della National Association for the Advancement of Colored People. Dylan la canterà alla Marcia su Washington di Martin Luther King, il giorno del celebre discorso “I have a dream”.

Svanita l’ironia che faceva capolino nel precedente “The freewheelin’ Bob Dylan”, restano due canzoni d’amore sulla fine della relazione con Suze Rotolo, “One too many mornings” e soprattutto “Boots of Spanish leather”, quest’ultima scritta in Italia, dove il folksinger era giunto alla ricerca della ragazza.

Il messaggio di cambiamento lanciato da Dylan nel suo terzo album ha avuto un impatto profondo sulla cultura popolare e se oggi alcuni personaggi di cui tratta il disco ci paiono distanti nel tempo, la forza espressiva di queste canzoni continua a parlarci. E parlava anche a Steve Jobs, che amava “The times they are a-changin’” a tal punto da usarla nel discorso di lancio del primo computer Macintosh, nel 1984.

Arricchito nel retrocopertina e nell’inserto da una serie di poesie scritte da Dylan titolate “11 outlined epitaphs”, l’album diventa disco d’oro e negli Stati Uniti arriva fino al ventesimo posto della classifica. In Inghilterra fa di meglio, arrivando in quarta posizione nel 1965 quando oramai il folksinger è altrove avendo pubblicato “Another side of Bob Dylan”, in cui abbandona il format della canzone di protesta, e si prepara alla svolta elettrica di “Bringing it all back home”. Un altro cambiamento sta per travolgere tutto e tutti.

Infine, per chi volesse scoprire ancora di più di Bob Dylan, mancano pochi giorni all’uscita in Italia dell’attesissimo film in cui Timothée Chalamet si cala appunto nei panni di Dylan.
Sto parlando di A Complete Unknown, uno dei biopic più attesi dell’anno da poco incominciato, la cui uscita nelle sale cinematografiche italiane è fissata per il 23 gennaio 2025. Diretto da James Mangold, questo film biografico vuole tracciare un ritratto tanto autentico quanto intimo della leggenda della musica cantautoriale americana, raccontando le tappe clou della sua incredibile carriera, senza tralasciare anche la sua vita personale.
La pellicola trae ispirazione dal libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald, edito in Italia da Vallardi.

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