#TellMeRock, i tormenti di Kurt Cobain e i trentuno anni delle introspezioni di ‘In Utero’

EDITORIALE – Kurt Cobain era davanti al televisore seduto sul divano. Sullo schermo scorrevano immagini dolorose di bambini sofferenti di cancro.

Prese la chitarra e cominciò a lavorare a una canzone, senza troppi risultati. Era il 1992. La mise nel cassetto e tornò a riprenderla un anno dopo, quando si trasferì con Courtney Love a Hollywood Hills, Courtney ricorda che Kurt si chiudeva in bagno per lavorare alla canzone e lei, che si era innamorata del riff di chitarra, un giorno gli chiese il permesso di utilizzarlo per un brano delle Hole, ricevendo in cambio un deciso fuck off.

E’ qui che la canzone inizia a cambiare prospettiva, perchè l’impulso iniziale, cioè i bambini malati di cancro, si mescola con il rapporto tumultuoso con Courtney, che era del cancro come segno zodiacale.

Non a caso i segni zodiacali dei protagonisti della canzone sono gli stessi di Courtney e Kurt: Cancro e Pesci. A suo modo, Heart Shaped Box è quindi una canzone d’amore, anche quando dice I wish I could eat your cancer when you turn black (Vorrei poter mangiare il tuo tumore quando diventi nera).

Il titolo di questo primo singolo tratto dall’album In Utero, pubblicato il 21 settembre del 1993, deriva da una scatola a forma di cuore che la Love regalò a Cobain poco dopo essersi conosciuti: conteneva, tra le altre cose, anche una testa di bambola.

Per unire ancora di più eros e tanatos, il titolo originale della canzone era Heart Shaped Coffin, bara a forma di cuore.

In Utero è il terzo album della band di Seattle, pubblicato il 21 settembre di 31 anni fa. In questo disco, Cobain e compagni provano a distaccarsi dal lavoro precedente, quel leggendario Nevermind che li aveva portati al successo e così inseguono un suono più grezzo e naturale, perfetto per incarnare le sempre più pressanti e dolorose inquietudini di Cobain.

Ne derivò dunque un album stilisticamente schizofrenico. L’equilibrio tra le penetranti melodie e le felici intuizioni punk-noise che aveva fatto la fortuna delle varie ”Lithium” è spezzato. Se brani come “Heart-shaped box”, “All apologies” e “Rape me” si riallacciano al lavoro precedente, con quella alternanza di parti lente e rumore che è un po’ il marchio di fabbrica del gruppo, altrove il trio spiccò il volo verso inusitati empirei noise, ad esempio nella conclusiva “Gallons of rubbing alcohol flow though the strip”.

La mano di Albini si sentì in particolare in quegli episodi in cui affiorava la vena plumbea e rumorista del debutto “Bleach”: pezzi come “Scentless apprentice”, “Milk it” e “ Radio friendly unit shifter” sono tra le cose migliori mai fatte dal trio.

L’incedere monolitico della sezione ritmica, ancorata al monumentale drumming di Dave Grohl, accompagna il buon Kurt in deraglianti esplosioni di feedback, tra riff al vetriolo e spigolosità assortite. L’alchimia tra musica finalmente senza compromessi e un Cobain ispirato come non mai nello sciorinare i suoi demoni è semplicemente perfetta.

Non mancavano i pezzi dalla struttura più classica (l’album avrebbe dovuto chiamarsi, ironicamente, “Verse, chorus, Verse”), ma proprio in questi episodi Cobain confermò la sua natura di songwriter ormai maturo, abbondantemente oltre i confini del grunge.

“Frances Farmer will have her revenge on Seattle”, col suo furore e un testo splendido ( “mi manca il piacere di essere triste “): “Dumb”, avvolgente litania in cui si intrecciano echi della tossicodipendenza e dell’infanzia di Kurt, sua ballata definitiva e struggente confessione accompagnata da un soave violino e da una voce appesa a corde emotive sottilissime ( “My heart is broke / but I have some glue”): “Pennyroyal Tea”, magnifico midtempo elettrico, e versi come “Give me a Leonard Cohen afterworld, So I can sigh eternally” che fanno salire un groppo in gola ad agni ascolto.

Un album dunque mirabile, irripetibile figlio dell’ epoca in cui fu concepito, dei cui splendori e ambiguità i Nirvana furono gli indiscussi primi attori.