EDITORIALE – Oggi parto da un pezzo che per anni, almeno per il sottoscritto, è stato un vero e proprio inno: Behind The Wheel, live in Pasadena del 18 Giugno 1988.
60,000 persone al ‘Rose Bowl’ (teatro della nostra sfortunata finale di Usa 94), e Dave Gahan, ragazzetto della provincia inglese, che prende consapevolezza che con i suoi “Depeche Mode” è davvero diventato qualcuno.
Ma da lì a un anno, l’ex teppistello (come definito da qualcuno), prende consapevolezza che questa crescita porta delle responsabilità e così, dopo un album riuscitissimo come “Music for The Masses”, si può solo migliorare mixando bene non solo le musiche e i sintetizzatori, ma anche musicisti e ruoli.
E così, Martin Gore si occupava del songwriting, Alan Wilder della produzione (ed innumerevoli altri aspetti; in buona sostanza, quasi tutto il “lavoro sporco” toccava a lui), Dave Gahan delle parti vocali ed Andrew Fletcher di “aspetti manageriali” (il sospetto, più che forte e comprovato da parecchie fonti, è che non facesse praticamente nulla).
Ed eccoci così all’agosto dell’89’, quando dal singolo-bomba Personal Jesus, Violator si pone come il coronamento perfezionista dei quattro di Basildon.
Martin Lee Gore, tastierista e fondatore dei Depeche Mode, racconta che di essersi ispirato al libro di Priscilla Presley “Elvis and Me”, affermando che Personal Jesus è una canzone riguardo all’essere un Gesù per qualcun altro, qualcuno che ti dia speranza e importanza. Riguarda il fatto che Elvis era il suo uomo e mentore e quanto spesso ciò accade in una relazione amorosa; come il cuore di tutti sia come un Dio in qualche modo, e questa non è una visione molto bilanciata di qualcuno, non è così?”.
E’ un pezzo blues rock se si analizzano accordi e sonorità, ma l’immancabile sound elettronico del Depeche Mode lo rende del tutto originale, anche nell’insieme tra testo e “motivazione di riferimento”, nel quale fede, religione e credenza popolare o soggettiva, si fondono in un tutt’uno, creando così un pezzo unico nel suo genere.
Carmelo La Bionda racconta in un’intervista a Rolling Stone che Dave Gahan e soci “hanno registrato cinque o sei pezzi da noi, fra cui Personal Jesus, mentre le altre in Danimarca. C’erano sia questo fonico inglese, Alan Moulder, che il nostro, Pino Pischetola. Quanto ai Depeche Mode, era un album, credo fosse il settimo, in cui hanno usato molti campioni. La particolarità però è che i campioni erano tutti creati da loro.
Usavano campioni di loro stessi. Hanno passato sei settimane intense negli studi. Erano molto concentrati, inoltre noi gli avevamo allestito un grande spazio dove potevano guardare la TV, vivere, svagarsi. Erano quasi tutti vegetariani e ammetto che non è stato facile trovare cibo vegetariano in quegli anni, anche a Milano”.
Ma La Bionda racconta anche alcune particolarità, sulla creatività dei Depeche e sulle “particolari” percussioni utilizzate nel pezzo: “le percussioni di Personal Jesus non sono altro che dei passi pesanti con gli scarponi registrati su una tromba delle scale dello studio. Una di quelle piccole che portava al quarto piano.
Quei “TUM TUM” non sono di una batteria, è proprio qualcuno che batte per terra. Loro hanno campionato il suono e l’hanno ripetuto come fosse una drum machine. Hanno sperimentato tanto, è stato un grande disco di ricerca. Sono stati da noi per sei settimane, ma ancora me li ricordo bene.
Il pezzo poi è stato mixato direttamente lì da noi da Francois Kevorkian. Del brano ne sono state fatte innumerevoli cover e remix, la più famosa e particolare è sicuramente quella di Marilyn Manson del 2005 o il remix dello stesso Kevorkian presente in “Remixes 81-04”. La storia della musica non smette mai di sorprendere e affascinare, e nel “Gesù personale” del Depeche Mode, c’è anche un po’ di Italia.
Violator 35 anni oggi, giorno 19 marzo, ed è degno di nota per essere il disco che eleva definitivamente i Depeche Mode al grado di star mondiale. Le registrazioni definitive del cominciarono il 13 novembre del 1989.
I nove pezzi si districano tra umori synth pop, dark e blues, perfezionando e cristallizzando la tipica formula goriana, fatta di giri di accordi in minore, brevi frasi vocali cadenzate ed interpretate splendidamente da un ottimo Dave Gahan, incastri minimalisti di synth, alternati a riff chitarristici ora blues, ora new wave.
Il songwriting del folletto biondo è talmente peculiare da aver fatto scuola: una sorta di mix tra gli immancabili Kraftwerk, il dandismo decadente dei Japan, le febbrili palpitazioni techno di matrice New Order e le spirali dark di complessi come Cure o Dead Can Dance.
Questi possono essere i principali riferimenti, ma farne la somma non vi porterà a definire l’essenza di questi pezzi, nobilitati da dei testi che, seppur non dotati di una cifra stilistica eccelsa, fanno della capacità di sintesi e dell’immediatezza la propria arma vincente.
In ultima istanza, è indispensabile analizzare nel dettaglio almeno tre dei frammenti di un album talmente ben costruito, da poter essere apprezzato e goduto sia tutto d’un fiato, sia ascoltandone le componenti singolarmente.
Una di queste è la già menzionata Personal Jesus, celeberrima e coverizzata da centinaia di personaggi più o meno illustri da 30 anni a questa parte e che merita di essere raccontata.
Non tutti sanno che il pezzo fu registrato a Milano nel 1989 ed è il primo brano in cui la chitarra guida il suono insieme alla batteria. L’ispirazione venne a Martin Gore dalla lettura dell’autobiografia di Priscilla Presley, Elvis and Me, dove emergeva chiaramente come Elvis, fosse per sua moglie, non soltanto il Re, ma un dio privato.
Gore pensò che queste cose accadono abbastanza frequentemente in una relazione e non sempre sono positive, perché tendono a sbilanciare il rapporto e far perdere di obiettività. Così scrisse questo brano che conobbe un grande successo e splendide riletture, a partire da quelle folle di Marilyn Manson e da quella epica di Johnny Cash.
Chicca “cinematografica”: nel film Matrix Neo, cioè Keanu Reeves, apre la porta della sua camera, la 101 (101 è anche il titolo di un live e di un documentario dei Depeche Mode diretto da D.A. Pennebaker), e consegna un disco a un uomo che lo ringrazia con queste parole: “Sei il mio salvatore, amico, il mio Personal Jesus”.
Come non soffermarsi poi, in modo altrettanto banale, su Enjoy The Silence, brano cardine della poetica e dell’estetica dei Depeche Mode?
Ascoltando la demo portata da Gore a Wilder si capisce quanto il ruolo di quest’ultimo nel forgiare a fuoco il sound della band sia stato largamente sottostimato nel corso degli anni: quella che era una tenue ballata per voce e armonium diventa un maestoso inno dance, che eleva la dance stessa su territori difficilmente raggiunti da altri, predecessori o successori che siano, trasponendola su un piano di struggimento contemplativo assolutamente estraneo alla corporeità molto fisica che, solitamente, la contraddistingue.
Ciò si attua non soltanto grazie ad un’ altra bellissima lirica, elogio del silenzio e della meditazione come tramite per una conoscenza superiore, ma soprattutto grazie al contrasto tra un’armonia celestiale e una base vorticosa, ossessiva e ballabile; si tocca il cielo con un dito quando, nel finale, s’inseriscono anche i fiati sintetici.
Ritengo doveroso citare, inoltre, un gioiello nascosto, occultato ai più, che però si assesta tranquillamente sul livello dei due classici di cui sopra, ovvero Waiting For The Night. Ballata sintetica che nulla ha da invidiare ai maestri degli anni ’70, quali Cluster, Eno, Jarre, ecc., essa si pone come puro distillato di filosofia dark, nel suo elogiare l’oscurità, la notte, vista come rifugio dall’ atroce noia e dalla quieta disperazione che quotidianamente ci affliggono. Il tutto senza che, liricamente, ci si lasci andare a sterili autocommiserazioni, anzi, le parole, assecondando le volute circolari, inizialmente impalpabili, ma via via sempre più presenti, dei sintetizzatori, sono ieratiche, anche qui contemplative ed essenziali. E’ impossibile non farsi rapire da questo autentico viaggio, che scorre sottopelle e non esce più, anche grazie alle splendide armonizzazioni tra le voci dei due leader, Gahan e Gore (un cantante fatto e finito, anche più intonato del suo sodale).
Altro pezzo spettacolare è il dinamitardo elettro-blues di Policy Of Truth, terzo singolo-instant classic che decolla sui suoi bassi pompatissimi e sul prepotente riff di chitarra slide: in formato live si trasformerà in riempipista per arene rock.
Mi sono dilungato anche oggi, ma mi appello per legittima difesa alla maestosità di un album che racchiude dentro di sé una magia che pervade in toto la creatività dei Depeche Mode, frutto di determinate circostanze, di ispirazioni, di sinergie irripetibili, che, infatti, non si ripeteranno.
Un monumento del synth pop, o, meglio, del pop tutto, raro esempio di incontro tra fulgore artistico e successo di massa.