EDITORIALE – «Era dal 1989 che cercavamo di fare un disco rock potente. Ci abbiamo provato con Out of Time e Automatic for the People, ma non erano potenti, poi è arrivato Monster». Michael Stipe ha spiegato così l’origine del nono disco dei R.E.M. uscito il 27 settembre del 1994 e che arrivó a debuttare al numero uno in classifica in America e in Inghilterra. «In realtà neanche Monster è un disco rock potente, è più un esperimento sonoro».
Basta l’attacco di What’s the Frequency Kenneth? con il tremolo ipnotico e acido della chitarra di Peter Buck (che un quel periodo si è trasferito a Seattle) per dimostrare che i R.E.M. hanno trovato la loro via alla distorsione. Gli anni del grunge erano istinto e rabbia, i R.E.M. invece sono pensiero e passione, costruiscono ragionamenti in musica parlando della follia del culto della celebrità, di amori struggenti e identità sessuali mutanti e trascinano l’ascoltatore in un vortice di feedback, riverberi e melodie dal quale è difficile uscire.
Monster, trent’anni compiuti ieri, è un disco di testimonianza, un racconto surreale e spietato dell’anno 1994 che riascoltato oggi nella versione deluxe uscita nel 2019 per celebrare il 25esimo anniversario (con un disco di remix realizzati dal produttore Scott Litt, uno di demo inediti e un concerto a Chicago del 1995) mostra quanto i R.E.M. avessero una visione chiara su quello che sarebbe successo in futuro e avessero già capito molte cose.
Il “mostro” invocato nel titolo ed esorcizzato dalla copertina (il disegno sfuocato della testa di un orso su uno sfondo arancione) è il successo che ha sconvolto l’approccio alternativo e intellettuale dei R.E.M., sono le tensioni all’interno della band in cui Stipe emerge come artista impegnato, mentre Peter Buck non ne vuole sapere di andare a Washington a stringere la mano a Bill Clinton, è l’assenza del contatto con il pubblico perché i R.E.M. non vanno in tour dal 1989, c’è l’inquietudine di quella generazione allo sbando a cui Douglas Coupland ha dato il nome di Generazione X.
I R.E.M. non ne fanno parte, non sono assolutamente grunge, non hanno lo stesso nichilismo punk e non soffrono della stessa mancanza di uscite di sicurezza culturali ed emotive, ma si mettono al centro di quell’ondata di dubbi, angosce (ma anche di idee brillanti) e dimostrano di essere capaci di comprenderle e spiegarle senza retorica.
Un atto di empatia artistica, un esercizio di raccolta delle istanze di un intero movimento generazionale distillate in un suono aspro e tagliente, con Michael Stipe che si mette al centro con la sua umanità fragile e ambigua e la sua forza di pensiero, come se volesse abbracciare tutti.
Il primo pezzo contiene già tutto: What’s the Frequency Kenneth? è una storia di follia realmente accaduta (a New York il giornalista televisivo Dan Rather viene attaccato da un pazzo che gli chiede “Qual è la frequenza Kenneth?” perché è convinto che i media gli stiano mandando dei segnali per controllarlo e vuole bloccare la frequenza) raccontata da Michael Stipe con uno stile nonsense che la rende ancora più inquietante e profetica, con un suono che come ha detto Peter Buck «ti esplode dritto in faccia» e la citazione di un film di culto della Generazione X, Slacker di Richard Linklater del 1991: «Tirarsi indietro disgustati non è la stessa cosa dell’apatia».
Il resto del disco è una raccolta di personaggi irreali, maniacali, disturbati eppure tremendamente realistici, presenti, in grado di condizionare la vita delle persone. I mostri che nascevano con la civiltà dell’immagine sono diventati più numerosi e potenti. Chi poteva immaginare che alla fine, ai giorni nostri, avrebbero preso il controllo?
«Tutto il disco era una specie di reazione al fatto di avere sempre un sacco di persone intorno e di finire sui giornali per i motivi più strani» ha detto Peter Buck. «Michael ha interpretato parti che non gli appartenevano. Ha creato dei personaggi davvero inquietanti e non so se la gente lo abbia capito». C’è il manipolatore dello show business di King of Comedy, l’amore patologico di Bang and Blame, il fanatismo malato di I Took Your Name, la sessualità ambigua di Crush with Eyeliner con l’aggiunta della chitarra di Thurston Moore, che con i Sonic Youth aprirà insieme ai Radiohead i concerti del Monster Tour.
Il fulcro emotivo però è sempre il talento di Michael Stipe nel creare canzoni che mettono insieme malinconia e trascendenza, dalla dichiarazione d’amore struggente e immatura di Strange Currencies (“Non so perché tu sia crudele con me / Quando ti parlo al telefono / E non so cosa significhi per me / Ma voglio accenderti, tirarti su, capirti, sfidarti / Queste parole, ‘Tu sarai mia’, per tutto il tempo”), uno dei miei brani preferiti della band.
Con Tongue come risposta femminile in falsetto, fino a Let Me In, il canto di dolore per la tragedia che segna una svolta negli anni ’90, il suicidio di Kurt Cobain. «Let Me In sono io che parlo al telefono con Kurt e cerco di tirarlo fuori dalla situazione in cui era finito». Michael Stipe aveva cercato in tutti i modi di salvare Kurt, gli aveva anche comprato un biglietto aereo per farlo andare ad Athens a parlare con lui del prossimo disco dei Nirvana e annega in un muro di chitarre riverberate una rabbia e una frustrazione che in quell’anno 1994 diventano di tutti.
Monster è un disco profondamente radicato nel suo momento e nelle vicende personali dei R.E.M, ma allo stesso tempo universale perché anticipa temi chiave del mondo contemporaneo e mostra una via alla sublimazione del reale (e quindi in fondo anche dell’era digitale) attraverso i sentimenti e l’umanità.
Un disco in cui si realizza il significato profondo che Michael Stipe ha dato al rock’n’roll: «Per me le canzoni sono un’ascensione, è come alzarsi da terra e muoversi verso il cielo, è un modo per interrogarci su cosa ci impedisce di volare davvero. Una delle cose che ci ha lasciato il ventesimo secolo è che dipendiamo dagli artisti per riuscire a staccarci dal nostro corpo e trovare qualcosa che va oltre. Non crediamo più nella religione, non crediamo più nei soldi e nella politica. Non ci sono molte cose in cui credere, ma penso che si possa ancora credere nella pura espressività, ed è per questo che la gente si rivolge alla musica».