#TellMeRock, i trent’anni di Siamese Dream, il rock anni ’90 targato Smashing Pumpkins

EDITORIALE – “Siamese Dream”, trent’anni oggi, è uno degli album che sintetizza al meglio il suono degli anni ‘90. Un hard rock moderno e variegato, in cui l’impeto del dirigibile targato PagePlant e certe tenebrosità di matrice sabbathiana sono filtrate attraverso la freschezza del grunge e soprattutto intarsiate da schegge psichedeliche e new wave, come da lezione Jane’s Addiction. A ciò si aggiunge il talento e la personalità del leader Billy Corgan, capace di plasmare il tutto con un’attitudine compositiva di ampio spettro, baciata da oceanici consensi, e di forgiare chiaroscuri che travalicano i generi mantenendo una cifra omogenea. Il successivo e mastodontico “Mellon Collie And The Infinite Sadness” confermerà la statura del gruppo di Chicago, benché sia qualitativamente più frammentario.

Siamese Dream” esce il 28 luglio 1993, due anni dopo il dirompente debutto “Gish”. Siamo in piena ondata grunge, e il gruppo si inserisce alla perfezione in questo filone: sia confermando in cabina di regia Butch Vig, nel frattempo salito agli onori della cronaca con “ Nevermind”, sia propinando testi e immaginario impregnati da quel “teenage angst” reso nel frattempo dominante da Kurt Cobain.

Buona parte dei brani di “Siamese Dreamsi snodano dunque sui binari di un hard vibrante, nel quale melodie insidiose e la pulita produzione di Vig non sottraggono nulla in termini di impatto: esemplari in tal senso i primi due brani, “Cherub rock” e “Quiet”. La martellante batteria di Jimmy Chamberlain fornisce scansioni ritmiche magistrali, su cui si inseriscono parti di chitarra al crocevia tra riverberi heavy, frammenti prog e dinamismo indie.

Notevoli sono anche “Rocket”, in cui la voce dai tocchi glam di Corgan giostra perfettamente clangori metallici e fermentazioni gotiche, e “Geek U.S.A”, in cui intense tempeste chitarristiche si infrangono sulla risacca di un break centrale estatico e sognante, impreziosito da echi shoegaze.

Meno riuscita, per quanto ammaliante, è la lunga sinfonia “Silverfuck”, evidente embrione della “Porcelina Of The Vast Oceans che illuminerà il disco successivo: il debito verso i Jane’s Addiction di “Ritual De Lo Habitualper quel modo di incastonare oniriche partiture ispirate ai Cure e dissolvenze lisergiche in un possente scheletro zeppeliniano è qui troppo evidente.

L’anima più schiettamente romantica di Corgan emerge felicemente in alcune ballate, che spezzano la tensione nei punti giusti. Sia negli acquerelli a lume di candela “Luna” e “Sweet Sweet, sia nel toccante requiem acustico di “Spaceboy” Billy conferma la sua versatilità di autore, mentre la barocca “Disarm”, per quanto suadente, stabilisce uno standard un po’ retorico che il gruppo riproporrà spesso in seguito, con molta meno efficacia.

Siamese Dream tocca però probabilmente il suo zenith in quei momenti in cui si compenetrano alla perfezione le componenti selvagge ed elegiache del gruppo: ciò accade in “Hummer”, i cui scintillanti turgori sfociano in un soffuso affresco di solitudine, nel calore anthemico cobainiano di “Today” ( chi non ricorda quell’intro di chitarra?)

Poi le strepitose “Mayonaise” e “Soma” alternano sontuose vibrazioni elettriche a toccanti sussurri. Una carezza in pugno: questo è sempre stato il segreto di Billy Corgan, in fondo.

C’è una cifra universale in Siamese Dream in grado di trascendere la sua collocazione storico-temporale. Agli Smashing Pumpkins va riconosciuto, al di là dell’indubbio calibro artistico, ampiamente confermato nella produzione successiva (su tutti, quell’epico Mellon Collie and The Infinite Sadness, tripudio antologico del Corgan-pensiero, e Adore, con la sua sorprendente transizione elettronica), il merito di aver catturato in un’istantanea polifonica un momento collettivo che si ripete da sempre e per sempre, un luogo che prima o poi è di tutti, e poi non più: quella stanza in penombra chiusa a chiave, in cui certe volte è persino bello ritrovarsi.