Dopo l’esordio di Pablo Honey, di cui si ricorda soprattutto il singolo Creep che li fece conoscere in tutto il mondo, i Radiohead pubblicano il loro secondo album, The Bends, il 13 marzo 1995.
Le differenze rispetto a due anni prima sono già sorprendenti: Yorke e soci mettono da parte il guitar pop degli inizi per approdare ad un approccio più attento a melodie e suoni, sempre restando comunque nell’ottica di un pop dal sapore tipicamente inglese.
Dove però su Pablo Honey si facevano spesso sentire i limiti di una mancanza quasi assoluta di originalità, qui si incominciano ad intravedere in modo vivido molte delle caratteristiche che diventeranno tipiche della band di Oxford. Due in particolare sono gli aspetti che caratterizzano The Bends e che verranno estremizzati in Ok Computer: la desolazione di testi nichilisti e pessimisti che evidenziano un netto malessere esistenziale e la svolta verso un suono più malinconico e meno aggressivo.

Semplificando in maniera rude e schietta, si potrebbe forse classificare The Bends come un incontro tra la cupezza dell’ultimo Kurt Cobain e le dolci produzioni di Smiths, U2 e Jeff Buckley.
Rimane però la sensazione che già da questo album ci sia un certo “tocco Yorke” che aggiunge un elemento di unicità, proiettando l’album verso le vette del pop britannico degli anni ’90, e rendendo il gruppo un modello imprescindibile per molti gruppi britannici (primi tra tutti i Coldplay) e non, a venire.
Un aspetto importante da considerare riguardo alla produzione è l’inizio della collaborazione con Nigel Godrich (tuttora attivo, ormai quasi un membro ombra della band), pioniere e artecife in grado di far emergere e sbocciare il suono-Radiohead.
Già da Planet telex infatti si nota come le chitarre siano più nitide e compatte, i riff ispirati. E già le prime lyrics (“you can force it but it will not come”) rappresentano un esempio dello scetticismo di Yorke verso tutto ciò che lo circonda.
Anche la title-track conferma il malessere personale del poeta rimasto solo (“where are you now when i need you?”) e la vana e romantica speranza che le cose possano migliorare magicamente da sè (“i wish i could be happy, i wish that something would happen..”).
High and dry, tra le mie preferite in assoluto dei Radiohead, si presenta con un intimo sussurro e sboccia poi in una ballata triste e travolgente. È un brano intimo in cui Yorke rende manifesta alla massima espressione la vena malinconica della sua band.
La canzone è ritenuta come una delle più pop del quintetto di Oxford, e costituisce il primo successo in America dopo la hit Creep. Come quest’ultima, High and Dry è mancata dalla scaletta dei concerti per oltre un decennio.
Molte voci si sono rincorse riguardo alle cause di questa mancanza, come ad esempio la difficoltà che Thom Yorke avrebbe incontrato nel ricantare la canzone, tuttavia, in una recente intervista, il frontman della band l’ha descritta con le seguenti parole: «Non è brutta, sai. Non è brutta… È bruttissima.»
Fake Plastic Trees, ballata triste e travolgente, è divenuta con merito un classico del repertorio del gruppo. E in effetti è difficile trattenere la classica lacrimuccia mentre nella delicata galoppata sonora uno sconsolato Yorke denuncia un mondo fatto di plastica, circondato da oggetti e uomini di gomma in cui ci consumiamo lentamente sognando di poter esprimere liberamente la nostra identità ma non riuscendoci.
Bones risente troppo dell’influenza U2 e stona per l’eccessiva irruenza ma l’atmosfera torna a essere (relativamente) rilassata e tranquilla con la dolce nenia Nice Dream.
Just (singolo dell’album) è un altro dei capolavori del gruppo con la sua struttura atipica, la voce dissociata e psicotica di Yorke a cavalcare le dissonanze della chitarra di Greenwood, ancora memore del grunge ma già oltre, sostanzioso antipasto dei deliri sonori di Ok Computer.
My Iron Lung ritorna alle tematiche di apatia sociale (“we’re too young to fall asleep too cynical to speak we are loosing”) all’interno di un saliscendi emotivo quasi schizofrenico.
L’eterea e ipnotica Bullet Proof… I Wish I Was è uno dei tanti gioiellini semi-nascosti di The Bends, così come da manuale del pop è il ritornello di Blackstar. Ma è un pop oscuro, velato di tristezza e rabbia e soprattutto è un pop d’autore,dal respiro poetico, da cui non si può non rimanere affascinati, come riesce difficile non immedesimarsi nelle ansie, nelle paure e nella voglia di prendersela davvero con una stella nera, con un cielo che crolla e con un satellite, piuttosto che andare verso il collasso totale.
La successiva Sulk, costruita sulle eccezionali doti canori di Yorke viene di fatto oscurata dall’onnipotenza di Street Spirit (Fade Out), altro pilastro di poesia stampato su un’effige sonora composta da un pizzico di magia e irrealtà. Definita da Yorke come “un tunnel oscuro senza una luce alla fine” Street Spirit rappresenta l’incontro onirico di Yorke con la morte, o con il diavolo, con un qualcosa insomma con cui l’uomo non può competere e da cui uscirà inevitabilmente sconfitto.
Forse si potrebbe racchiudere in questo pezzo l’essenza del pensiero di Yorke, uno dei più cupi songwriter del nostro tempo.
E in effetti si fa fatica a credere che un simile soggetto per tanti versi simile nello spirito a Kurt Cobain o a Ian Curtis abbia trovato la forza di andare avanti e lottare contro un mondo terribile che lo ossessiona. Noi, che amiamo la poesia, ringraziamo il destino per questa eccezione.