EDITORIALE – Album che sconvolse critica e pubblico per il suo suono atipico, Jar of Flies (come mai prima di allora era accaduto ad un ep) esordì al primo posto delle classifiche. Anticipato da Sap, uscito nel 1992, il disco si discosta dall’essenzialità del suo precursore acustico presentandosi musicalmente molto più arrangiato e orchestrale.
In una scena che fondeva la disperazione grunge di Cobain al corteggiamento amoroso di Vedder per il classic-rock, gli Alice in Chains se ne uscirono con una piccola grande gemma semiacustica che meravigliò tutta Seattle. Sebbene sonorità acustiche fossero già state sperimentate nell’alternative nation dall’antesignano Lanegan (che aveva firmato quattro anni prima The Winding Sheet), le malinconiche melodie di Jar of Flies, pubblicato il 25 gennaio del 1994, non mancarono di sorprendere; e ciò risulta ancora più comprensibile se si pensa che furono fatte seguire al piombo chitarristico di un album del calibro di Dirt.
Jar of Flies esprime l’anima intimista di una delle band dal suono più metallico e cupo della scena. La fragilità emotiva espressa nelle liriche (così come in Sap e soprattutto nel live MTV unplugged) non è protetta dalla pesantezza del suono e la voce sporca di Layne fluisce più struggente del consueto. Scritto “in poco più di una settimana di alcool e solitudine”, il disco presenta l’inusuale tecnica delle incisioni vocali sovrapposte, e la voce di Layne che fa eco a se stessa risuona gravida di un intimismo impressionante.
A seguito della sostituzione che vede Mike Inez subentrare a Mike Starr (allontanato per problemi di tossicodipendenza), gli Alice in Chains si propongono con una nuova formazione.
L’album si apre con l’incedere ritmico e ipnotico di Rotten Apple, una ballata dal sapore dolente, pregna di una spietata sincerità: “Niente più innocenza / infranta la fiducia / così giovane striscio da capo per ricominciare / mi pentirò domani / il mio dolore a mezz’aria, il mio dolore”.
Segue il limpido flusso emozionale del capolavoro Nutshell, una ballata triste e profonda come una notte bagnata di pioggia e solitudine: “Eppure ancora combatto questa battaglia tutto solo, nessuno con cui piangere, nessun posto da poter chiamare casa. Il dono che faccio di me stesso viene violentato, la mia intimità è violata, eppure mi ritrovo a ripetere nella mia testa, se non posso essere me stesso, meglio sarebbe essere morto”. La poetica di Layne è permeata da un’emotività sofferente che, malgrado la presa di posizione conclusiva, sembra protesa verso un abisso.
A seguire, la singolare I Stay Away, un fosco viaggio dalle tonalità alienanti che si fa maestoso nel momento in cui le stratificazioni vocali vengono circondate dagli archi. Layne col suo timbro notturno e decadente riesce a lacerare la notte, malgrado ogni diceria il suo carisma vocale rimane indiscutibile.
A confondere l’ombra di questi dipinti della solitudine arriva No excuses, uno dei brani più “luminosi” dell’album, nonché il primo dei due pezzi scritti dal chitarrista Jerry Cantrell: “Viene il momento in cui non ho la pazienza di cercare la pace della mente, scivolando giù voglio prendermela con calma, senza più nascondere o mascherare la verità che ho venduto”. La lirica pura e gli assoli leggeri e ricercati fanno di Cantrell (anima compositrice degli Alice a livello musicale) il grande co-protagonista di questo album: “Ogni giorno è qualcosa che mi colpisce così freddamente, trovandomi seduto da solo / tutto va bene, ho avuto una brutta giornata, le mie mani sono a pezzi, infrangendo gli scogli di ogni giorno, esausto e livido, sanguino per te, pensi sia divertente, beh ci stai affogando dentro”.
Dopo la suggestiva e strumentale Whale & Wasp, arriva la languida Don’t follow, secondo pezzo scritto da Cantrell. Malato di tristezza e disincanto, Jerry esprime appieno la disillusione della sconfitta: “Dimmi addio, non seguire una tristezza così grande / mi sento così perso e non so perché / sto sprofondando”. La sua voce è molto dolce e la differenza con le tonalità meno immediate di Staley è evidente. Layne entra in scena a metà canzone e la sua immedesimazione nel testo è più che credibile: “Ho dimenticato la mia donna, perso i miei amici, le cose che ho fatto e dove sono stato, freddo è il sudore in cui dormo e gli specchi che vedono il mio viso invecchiare, ho tanta paura senza una ragione, fai qualsiasi cosa per tenermi in vita, pensa alle cose che ho detto, leggi questa pagina fredda e vuota, portami a casa”.
Scuote dallo sconforto dell’album l’ultima traccia Swing on this. Sopra una melodia un po’ fuori dal coro Layne rammenda le voragini della sua disperazione invitando a “passarci sopra”. Malgrado i consigli di parenti e amici a tornare a casa, lui ribadisce fino alla fine: “Lasciatemi stare, sto bene non lo vedete? Proprio bene, un po’ magro okay, comunque dormo / Poi ho sentito una voce, diceva: “Figlio hai una possibilità”, così mi sono perso a schiaffi”.
La voce alterata di Layne, il cantato chiaro e pulito di Cantrell su più tracce, la disfatta espressa nelle liriche e il mancato tour incrementarono ancora una volta le voci che volevano Staley dipendente dall’eroina; e mai voce fu più vera, visto che ormai da anni, Layne era il fedele compagno di una maledizione vestita di bianco.
Ascoltare il frontman degli Alice In Chains in questo ed altri album (a cui è d’obbligo, a mio parere, aggiungere Above) è come scostare un pesante tendaggio ed entrare in un luogo di espiazione rimasto impregnato di antiche pene, un luogo polveroso e dimenticato in cui si possono scorgere le orme che l’umano dolore sempre lascia al suo passaggio.
Chi è pronto a scostare una simile cortina, ascolti questo disco…