EDITORIALE – Gli anni dell’Università, della radio, dei pomeriggi romani coi tramonti al Ghetto Ebraico e con gli i-pod da caricare per scoprire la nuova scena indie italiana. Era l’aprile del 2005, e il bagaglio che si stava presentando alla nuova scena musicale in Italia era già colmo di belle esperienze e storie, dai Subsonica ai Verdena, passando per l’esordio di cantautori di alto livello come il compianto Paolo Benvegnù, fino ad arrivare ai Marlene Kuntz e agli Afterhours.
Proprio questi ultimi venivano da due album che avevano già spaccato il flusso melodico che in quegli anni stava riempendo le classifiche italiane, con dischi importanti e innovativi come “Quello che non c’è” (2002) o l’esordio eclatante del 1997 con “Hai Paura del Buio”.
Ma è proprio il 2005 l’anno di svolta per la band capitanata dal carismatico Manuel Agnelli, il quale decide di farsi carico dell’eredità pesante del precedente album e mettere in cantiere nuove sonorità, tematiche e ispirazioni. Le attese sono molte e le pressioni pure, ed è per questo che la band milanese decide di farsi aiutare in questo nuovo lavoro da Greg Dulli, leader degli Afghan Whigs tra gli anni 80′ e 90′.
La partecipazione del musicista statunitense all’epoca venne così spiegata da Agnelli: “Greg, con gli Afghan Whigs, ha rivoluzionato la musica rock ed ha rivoluzionato anche noi… Siamo amici da parecchio tempo, collaborare è stata una cosa naturale. Coproducendo il disco ci ha dato quell’intensità e soprattutto quella leggerezza che ci mancava da tempo”. Invece parlando dell’album il frontman degli Afterhours dichiarò: “E’ figlio di un periodo, più che del disco precedente. Il pessimismo è quello di questi tempi, ma questo disco è più rabbioso, più reattivo di ‘Quello che non c’è’. (…) è un disco che parla soprattutto della mediocrità.”
Nasce da queste premesse “Ballate per piccole iene”, venti anni da compiere il prossimo 15 aprile. Nonostante le perturbazioni soniche (i riverberi angolosi, gli organi crudi, la “normale anomalia” del violino amplificato…), lo stile Afterhours si fa sempre più quadrato e prevedibile, funzionale al progetto di elettro-muraglie carismatiche erette a barricare l’irrequieta sensibilità di Agnelli. C’è tutta l’intenzione di riempire, con lucida sagacia, una casella pressoché vuota nel panorama italico, quella del rocker selvatico e scafato, in bilico tra mondanità alternativa e crudo “wild side”, uno che lo shobiz preferisce cavalcarlo prima di farsi ingroppare (Vedi anche perchè poi abbia accettato di fare il giudice a X Factor). Chiamatelo pragmatismo, oppure opportunismo, dipende da quanto siete ben disposti verso l’uomo.
In ogni caso, in questo disco, gli va riconosciuta una certa abilità nel conseguire l’obiettivo. In questo quadro non stupisce che le velleità “sperimentali” abbiano ceduto il passo, e che i testi all’insegna di un taglio quasi netto col passato, siano divenuti gli smerigliati esercizi di cinismo che ancora vent’anni dopo ascoltiamo. Feedback e distorsioni, ballate e scorribande, ipnotiche delicatezze folk-blues e deflagranti acidità definiscono quindi un ibrido tra dimensione autoriale e psichedelia, tracciano una strada che non manca d’intrigare.
E’ un album di canzoni rock, più rabbioso e meno cupo del suo predecessore. Ha in comune con “Quello che non c’è” il pregio di evitare ogni banalità. Non sono certo banali i suoni, curatissimi ed eleganti. Non la struttura delle canzoni, che è appunto diretta come si confà ad una canzone, ma neanche prevedibile. Non sono per niente banali i testi – quelli di Agnelli non lo sono mai stati – che parlano di mediocrità e sentimenti fugaci, come la title track. Fotografia di un amore, delusione e cruda fugacità.
Poi si sfocia nell’immaginario più noir e personale tipico della band come ne è prova evidente “La vedova bianca”. Il titolo potrebbe prendere spunto anche dal nome di una varietà di cannabis molto ricca di principi attivi. E come nei primi decenni del rock avveniva spesso, la lontana evocazione delle sostanze stupefacenti (e a volte psicotrope) e le loro caratteristiche entrano (a livello metaforico e poetico) in un pezzo rock, per intrecciarsi con la storia del protagonista e del suo mondo – e andare, quasi sempre, a raccontare una storia d’amore (o di amore distruttivo). Lasciando spesso nel mistero se si tratti di un messaggio per una donna o per la sostanza stessa da cui si finisce dipendenti – come da certe relazioni. Si tratta di uno dei brani cult della band (e personalmente di uno dei miei preferiti, la trovo piena di ispirazione e di atmosfera.
Un contributo notevole alle atmosfere del disco è dato proprio dalla presenza alla produzione e tra i musicisti di quella vecchia volpe di Greg Dulli, uno che ha fatto la storia del rock americano con gli Afghan Whigs, e che continua a fare cose egregie anche con i Twilight Singers. Certe scelte – soprattutto nella fusione tra ritmiche e melodie – arrivano proprio da quella lezione, tanto che “La vedova bianca” è un – ben riuscito – mix tra Afghan Whigs e Afterhours. “Carne fresca”, “Male in polvere” e “Il Sange di Giuda” sono ballate assai ben costruite, in questo senso.
Insomma, “Ballate per piccole iene” è un disco che brilla di luce propria, anche se soffre un pò il confronto con “Quello che non c’è”. E’il degno disco di una delle migliori band italiane, una band che ha dimostrato sempre di saper andare avanti e di non fermarsi a riposare sugli allori, ed è in continua evoluzione. Da questo punto di vista non deluderà nessuno.
E’ annuncio tra l’altro di queste ore, che gli Afterhours saranno in Tour a partire dal prossimo 26 giugno proprio per celebrare il ventennale di questo straordinario album
