EDITORIALE – Terminato l’incredibile e positivissimo decennio degli anni Novanta, è risaputo che i Pearl Jam non furono più in grado di mantenersi su un certo tipo di standard qualitativo. Ma non per colpa loro eh, sia ben chiaro, ma perchè fu proprio tutta la scena del grunge a mutare o spegnersi, col mercato che si lanciò più sul pop e sulla “maledizione” delle boy band.
Gli autori di veri e propri capolavori del calibro di Ten, Vs. e Vitalogy, ma anche di ottimi album come No Code e Yield, diedero il via agli anni Duemila con un lavoro che tentò di riaggrapparsi alle loro origini, ma senza riuscirci fino in fondo. Infatti Binaural per molti non fu all’altezza delle aspettative, pur mostrando di possedere tanti punti di forza che anche oggi gli permettono di essere considerato un prodotto più che valido.
Due anni dopo, il 12 novembre del 2002, arriva Riot Act, ultimo disco ad uscire per conto della Epic Records. Per chi vi scrive questo è un album molto importante. Lo é in quanto era il periodo in cui stavo conoscendo la band (in maniera quasi maniacale, dovrei aggiungere, nel mio primo anno universitario) e conseguentemente aspettavo questo disco con molta impazienza.
Riot act, settimo album in studio della band, é un disco con diverse sfumature politiche in quanto composto in un momento storico molto particolare per gli Stati Uniti, che stanno rimettendo insieme i cocci dopo l’11 settembre Il tono del disco si percepisce fin dal titolo con quel “Riot act” (atto di rivolta) che fa il verso a quello che é il famoso atto patriottico “Patrioct act” firmato contro il terrorismo da Bush.
Rispetto alla line-up di Binaural non ci furono cambiamenti, con la riconferma di Matt Cameron alla batteria, ma per la prima volta comparve tra i crediti il nome di Kenneth “Boom” Gaspar, tastierista che solo successivamente entrerà in pianta stabile nei Pearl Jam. Riot Act non è certo un album di difficile assimilazione, ma i fan di vecchia data della band potrebbero storcere il naso per alcune scelte stilistiche apportate da Vedder e colleghi. Questo perché l’album non punta con decisione verso nessun punto preciso, restando sospeso tra grunge, rock e alternative con l’aggiunta di qualche soluzione sperimentale che snatura un pò la band.
Il disco si lascia ascoltare per la voce sempre inconfondibile di Vedder e per la sua armonia, con pezzi che si lasciano apprezzare anche a distanza di venti anni.
Si parte dall’iniziale Can’t Keep, canzone apparentemente lenta ad ingranare, ma in realtà esplosiva per tutta la sua durata, sapientemente interpretata da un Eddie Vedder in stato di grazia.
È un inizio in grande stile, cui seguono due tra i pezzi più interessanti del disco, Save You e Love Boat Captain. La prima è anche la canzone più movimentata che troveremo, un grunge rock dai ritmi frenetici, che tratta un tema sempre attuale come quello dell’aiuto e del sostegno da dare ad una persona che per un motivo o per l’altro sta buttando via la sua vita.
Love Boat Captain è invece un inno all’amore -pur visto con toni pessimistici- con tanto di frase “Love is all you need, all you need is love” che non lascia adito a dubbi. All’interno del testo viene inoltre citata la tragedia del Roskilde Festival di due anni prima, dove morirono nove persone tra il pubblico schiacciate dalla folla. Musicalmente parlando si tratta di un brano dalle diverse sfaccettature, in cui predomina però la malinconia, solo in parte soffocata dall’energia senza eguali del cantato di Vedder.
Per trovare un altro brano all’altezza bisogna saltare alla seconda metà del disco, con Get Right, che da un punto di vista musicale può essere paragonata alla sola Save You.
Molto diversa, ma ugualmente efficace è poi la conclusiva All or None, lenta ed intensissima ballad dai toni fortemente malinconici e cupi.
La mia menzione speciale va però al pezzo cardine del disco, quella I Am Mine che torna sulla tragedia del Roskilde Festival. La canzone fu scritta da Vedder in un hotel poco prima di uno show tenutosi in terra americana, il primo organizzato dopo la tragedia avvenuta proprio al Roskilde Festival nel 2000. Allo show dell’8 luglio 2003, Vedder dichiarò: “Questa canzone riguarda la sicurezza personale, del sentirsi al sicuro e anche liberi”.
Va segnalata, ma per motivi che esulano dal contesto musicale, la penultima traccia del disco, Arc, anch’essa dedicata alle nove vittime del Roskilde Festival. Si tratta essenzialmente di una registrazione effettuata sovrapponendo dieci tracce vocali diverse del cantante Eddie Vedder, senza l’aggiunta di strumenti musicali.
Per chi pretende di rivivere i Pearl Jam di Ten, dico subito che questo disco non fa per voi. E’ il lato politico e sentimentale di Vedder, di denuncia, ma anche e soprattutto di sentimento, dove l’energia a volte lascia il posto al romanticismo e alla sensazione di smarrimento che ha segnato la band nei due anni precedenti, tra le tragedie dell’11 settembre e del Roskilde. Resta un disco ascoltabile e di riflessione, quasi pionieristico se poi si andrà a scoprire la ventata musicale che porterà avanti anche l’Eddie Vedder solista