EDITORIALE – Fondati nella seconda metà degli anni ’90 da Josh Homme, chitarrista (qui pure cantante) già alla guida dei Kyuss, i Queens Of The Stone Age hanno saputo portare lo stoner rock della band madre fuori dall’underground, rendendolo a sorpresa un fenomeno da classifica.
Avviato nel 2000 con il precedente Rated R, il processo si è definitivamente concretizzato con Songs For The Deaf, terzo album della band, il quale ha compiuto ventidue anni lo scorso 27 agosto e, inoltre, secondo e ultimo a presentare come spalla compositiva di Homme un altro ex Kyuss, il bassista (in quattro brani anche voce), Nick Oliveri: un concentrato esplosivo di hard rock “alieno”, visioni desertiche, contaminazioni più o meno audaci, illuminanti fantasie pop e indole, (a stento trattenuta),proiettata alla jam.
Estroso e ritmato all’ennesima potenza, il sound della compagine californiana si avvale dei preziosi contributi di altri due famosi membri all’epoca stabili: Dave Grohl dei Foo Fighters, ritornato batterista come nei Nirvana, e Mark Lanegan, ex Screaming Trees, al microfono in tre episodi tra cui la title track e di numerosi ospiti che conferiscono colori speciali ad Another Love Song, resa ancora più solenne da e-bow ed organo, e alla magnifica Mosquito Song, che parte eterea e malinconica per poi acquisire toni sempre morbidi ma più pieni con gli innesti di pianoforte, archi, fiati e accordion.

Il resto è rock n’roll tellurico e piuttosto cupo, ora crudo e acido (specie quando al canto c’è Oliveri) e ora incline alla melodia, imbevuto di un senso di libertà rarissimo da riscontrare nelle produzioni contemporanee e più che mai in quelle major. Un’affascinante tendenza a lasciarsi andare sviluppata in trame ipnotiche, sospese tra vigore ed evocatività, che non nascondono i saldi legami con Seventies e Sixties ma che in qualche modo appaiono nuove.
Emblema perfetto è la energica e strana No One Knows, colonna portante di Songs For The Deaf e protagonista di nottate insonni nel 2002 con il mio coinquilino Angelo Fittipaldi ad aspettare che venisse trasmessa su Mtv (che dio l’abbia in gloria) nel programma dedicato all’indie dal titolo Brand New, mandato in onda rigorosamente dopo l’una.
Il brano è diventato nel tempo il più grande successo della band di Homme, spinto molto anche da una formazione che comprendeva nel tempo anche Dave Grohl alla batteria. No One Knows è stato accompagnato anche da un videoclip stralunato e divertente con protagonista un cervo e il deserto. La band percorre in jeep le strade notturne e vuote e si imbatte nell’investimento di un cervo. Questo si riprende, pesta la band e la lega all’auto, portando Homme e company dalla sua amata cerbiatta come “trofeo di caccia”.
Passano le ore per l’ascoltatore che attraversa il deserto, scende la sera e l’album si fa più intimo con Gonna Leave You, Do It Again e il blues malato di God Is In The Radio”. La vena più mariachi è esplicitata nella splendida ballata Another Love Song, ma è solo il canto del cigno prima di sprofondare nell’abisso della tetra e spaventosa Go With The Flow. Dopo averci condotto negli inferi, il dj ci saluta e ci augura buonanotte lasciandoci con l’acustica ballata Mosquito Song.
Rivoluzionato l’organico attorno ad Homme, Le Regine dell’Età della Pietra continueranno a furoreggiare sui palchi, ma i loro due dischi successivi non sapranno replicare a pieno questo capolavoro, solo Lullabies To Paralize, del 2005, ci andrà comunque vicino.
Il torbido incanto di Song For The Deaf, concepito come colonna sonora di un ipotetico viaggio in auto da Los Angeles a Joshua Tree, tra deserto, visioni e polvere…