EDITORIALE – Presto o tardi, Nick Cave doveva pubblicare un disco del genere. Per chi da sempre collocava al centro della propria arte i più oscuri recessi dell’animo, un lavoro imperniato sulle ballate che raccontano storie di morte e assassinio (così profondamente radicate nel folklore, non solo anglosassone) era un gesto che tutti attendevano. Il che non significa che ne sia venuta fuori un’opera schiava di mestiere e routine, tutt’altro: ormai considerato anch’egli classico, Nick osserva e racconta la violenza insita nell’uomo alternando vibranti tradizionali rivisitati e splendide canzoni autografe “in tema”.
Quando il 5 Febbraio 1996, “Murder Ballads“, il nono LP di Nick Cave & the Bad Seeds esce nei negozi, era stato preceduto, 4 mesi prima, dal singolo Where the Wild Roses Grow che già aveva spopolato nella Top 20 di mezzo mondo, grazie anche alla partecipazione di una mega star come Kylie Minogue. La band australiana non aveva mai raggiunto prima un tale successo commerciale. L’album non sarà da meno, raggiungendo, tra l’altro, il disco d’oro nel Regno Unito.
Ventinove anni dopo, il singolo e tutto l’album, rappresentano un classico.
Facendo un passo ulteriore rispetto al pur eccellente “Let Love In” del 1994, Cave e compari non mostrano più timore di nulla (ammesso che dei punk ne possano avere) e si permettono di giocare con la storia della musica. Ed ecco Stagger Lee, un blues tradizionale ispirato ad un episodio di cronaca nera dell’anno domini 1895, in cui un pappone afro-americano commise un brutale omicidio. Sostenuto da un giro di basso blues in bella evidenza nel mix, accentuato sul battere da botte di piano e di chitarra smorzata, il pezzo raggiunge l’apice con i colpi di pistola e le urla di puro orrore alla fine.
Cave riscrive un pezzo che girava da cento anni e che già negli anni ‘50 era entrato nelle classifiche statunitensi; nel suo testo, Stagger Lee ricompare nel 1932, più cazzuto e furioso come mai, ed ecco il punk che si appropria del blues, riscrivendone e teatralizzandone l’epica.
In modo simile, viene descritto, in The Kindness of Strangers l’omicidio di tale Mary Bellows ad opera di tale Richard Slade, due personaggi creati da Cave. Il pianto della ragazza appare all’improvviso, alla quinta strofa, facendo venire i brividi sulla spina dorsale dell’ascoltatore.
Stagger Lee e Richard Slade appaiono spietati come l’omicida di Kylie Minogue che, nella sopracitata hit, e’ una giovane dalle “labbra dello stesso colore delle rose che crescevano lungo il fiume, tutte sanguinose e selvatiche” e che non fa una bella fine: “mi chiamano la Rosa Selvaggia, ma il mio nome era Elisa Day”, canta il suo fantasma nel ritornello. Il tutto immortalato in un video – più macabro impossibile – che spopolò su MTV.
Nel corso del disco si contano 65 omicidi e un canicidio; più di uno al minuto, sparsi su dieci tracce, tra qualche traditional reinterpretato e molta nuova epica. Il tutto radicato nelle più profonde tradizioni del folk e del blues americano. Con una gemma che, musicalmente e poeticamente, forse splende più’ delle altre, O’ Malley’s Bar: oltre 14 minuti, privi di noia, per raccontare una strage in un bar, ad opera di un sociopatico (“quando gli ho sparato, ero cosi’ bello, sarà per la luce, sarà per l’angolazione”), sottolineata da un ritmo incessante in levare, stacchi percussivi, accenti di piano free-jazz e di organo R&B. Una magia di pathos.
Poi arriva l’amore di Nick Cave, in un duetto da brividi con PJ Harvey, sua compagna dell’epoca, nella stupenda e malinconica Henry Lee, con tema e ritmi basati su alcune canzoni tradizionali spesso citate del folk come “Young Hunting”. Racconta di una donna che uccide un uomo perché non la amava e non dormiva con lei.
Nel video musicale del brano, diretto da Rocky Schenck, si vedono Nick Cave nel ruolo di Henry Lee e PJ Harvey nel ruolo dell’amante, che cantano in duetto su un sfondo verde. Esso si svolge in un’unica scena, a differenza di quello girato per Where the Wild Roses Grow, ed è basato sul linguaggio del corpo. Sono state prodotte due versioni di questo video, una girata in un’unica ripresa e l’altra montata, ma gli autori decisero che la prima era molto più efficace e la seconda non venne mai trasmessa o pubblicata.
Ma siccome “Murder Ballads” è un capolavoro, deve terminare con il colpo di scena. Death is not the End è la cover, in versione cabarettistica, di un pezzo minore di Bob Dylan: “se sei triste e solo e non hai amici, devi solo ricordare che la morte non è la fine”. Non il momento più alto del disco, ma utile per spazzare via tutto il sangue e il terrore dei precedenti 54 minuti e rendere omaggio ad un maestro dell’epica musicale, la cui impronta sul disco era già chiara nelle precedenti 9 tracce.
Nick Cave & the Bad Seeds sarebbero potuti rimanere nella storia della musica, con il nome impresso in caratteri cubitali, semplicemente con questo disco. Successivamente, la storia della band, anche recentissima, ci ha regalato moltissime altre emozioni dello stesso livello. Ma le “Ballate Omicide” restano li’: epiche. E magari cent’anni dopo, nel 2096, qualcuno aggiungerà un nuovo capitolo alla storia della “Rosa Selvaggia”.