#TellMeRock, i ventitré anni di “Quello che non c’è”, il manifesto dell’indie – rock italiano firmato Afterhours

EDITORIALE – Chi è legato agli Afterhours non lo ha mai dimenticato. Chi li stima con diffidenza ne prende le distanze. Chi non li ha mai digeriti da quel momento in poi ebbe molti motivi in più per continuare su quella condotta. Ma ci sono due elementi in “Quello che non c’è” che a distanza di ben ventidue anni conferiscono al disco più sperimentale di Manuel Agnelli e soci un’aura tipica dei classici che in nessuna sede può essere discussa: la poetica e l’attualità.

Sì, perché Quello che non c’è”, pubblicato il 5 aprile del 2002, a livello di contenuti lirici è ad oggi il disco più sofferto, struggente, malinconico e necessario degli Afterhours. La separazione da Xabier, le grandi aspettative del pubblico e l’idolatria di cui erano oggetto, la sofferenza di sentirsi inadatti ad un ruolo preciso, i critici che li avevano elevati a Status di Autentici Salvatori di quello spirito “rock” italico sempre sul punto di esplodere ma che puntualmente collassava su se stesso: questi, insieme ad altri sentimenti che solo l’autore può riconoscere d’aver provato, hanno creato un magma sonoro e poetico di straordinaria intensità, dove la sperimentazione (soprattutto nel minutaggio dei pezzi e nella orchestrazioni strumentali avvolgenti) assume un significato coerente, come un infinito andirivieni ciclico di creazione, plasmazione e distruzione di pathos pulsante ed elettrico.

Ruvido come la carezza di un artiglio, accattivante come il sorriso del diavolo e generatore di una sana dipendenza come la più riuscita annata di vini che si ricordi a memoria d’uomo, “Quello che non c’è” non mostra una sola settimana di polvere accumulata a fronte del decennio che lo ha oltrepassato.

Merito di una produzione sapiente? Senza dubbio. Merito di una buona scrittura? Ovvio.

Se prese singolarmente, alcune delle composizioni non possono – ad ogni buon conto – essere annoverate con assoluta certezza e insindacabilità tra le gemme migliori di casa Agnelli, è piuttosto il concept intrinseco che si fa strada tra le nove arie dell’LP a dominare su qualsiasi aspetto singolo. Un concept asimmetrico, di totale disillusione («Non dargli mai le spalle se vuoi che tutto sia okay tra voi»).

Oppure di rassegnata presa di coscienza («Perciò io maledico il modo in cui sono fatto») e di lucida consapevolezza («Non riesco a godere della mia velocità»).

Ed è in questa sorta di psicanalisi-dark che risiede l’attualità del disco. Autodifese che cedono come burro sotto una lama affilata, l’aggressività come unico rimedio all’intolleranza verso se stessi, nessuna pianificazione sul futuro.

E poi, quella title-track che – citando la recensione uscita all’epoca su Rockstar – può essere definita come la “Losing My religion” italiana.

Ma il punto focale del disco, a giudizio di chi scrive, risiede nella traccia più articolata, disperata e deflagrante del disco: “Bungee Jumping”. Un pezzo pieno, distorto, oppressivo, ma tremendamente lucido e affascinante: «È troppo tardi per sentirmi nuovo, tardi per sperare, è troppo tardi per cambiare ancora». Manuel si mette a nudo con tutto il suo essere criptico che lo ha sempre caratterizzato ma con il tono di chi, forse, vuol mostrarsi in una veste opposta a quella consueta.

Sentimenti, sensazioni, brividi che non lasciano indifferenti. Che non passeranno mai di moda. Come un rito collettivo, di catarsi, di morte, di rinascita, di godimento e disperazione che ci arricchisce sempre di nuove particelle emotive e che in sede di live colpisce dritto allo stomaco, quasi come un colpo di Stato.

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