#TellMeRock, ‘Songs In The Key Of Life’: il dono di Stevie Wonder alla Musica

EDITORIALE – Suona pazzesco a dirlo, ma l’artista che da alla luce il suo capolavoro, nonché uno dei “must” della musica e non solo nera del Novecento, a un’età in cui tanti sono delle promesse, cioè ventisei anni, è un veterano che ha già trascorso metà della sua vita sotto i riflettori.

Tredici anni sono passati infatti dacché, ringiovanendosi nel titolo, Steveland Judkins, in arte Stevie Wonder, si  affacciato alla ribalta con il live 12 Year Genius, album a cui ha dato un immediato seguito con un esplicito Tribute To Uncle Ray mandando poi nei negozi altri due LP prima che quel memorabile 1963 sia finito.

Nel resto del decennio, “Little Stevie Wonder” ha colto una hit dopo l’altra, affrancandosi nel contempo da una devozione inizialmente totale per Ray Charles, maturando una sua personalità, siglando non solo diversi classici a 45 giri ma pure alcuni 33 giri “di prova”.

Già basterebbe già per consegnarlo agli annali del soul e consentirgli di ritirarsi, ancora poco più che ragazzino. Macché! Proprio il compimento della maggiore età permette al giovanotto una ridiscussione del contratto con la celeberrima Motown e di mettere il super manager Berry Gordy all’angolo pretendendo e ottenendo concessioni economiche sbalorditive e ciò che più conta, una libertà artistica totale.

Sperimentando gioiosamente con l’elettronica, con le musiche latine come con il pop, con il rock e il gospel, con funk e jazz, con il raggae e con Chopin, tra il 1972 e il 1974, Stevie Wonder mette in fila quattro album uno più strepitoso dell’altro: Music Of My Mind, Talking Book, Innervisions e Fullfillngness’First Finale. Incredibile ma vero:  il meglio deve ancora arrivare.

Due anni dopo, nel 1976, Stevie Wonder arriva in forma motivazionale e musicale superba, pubblicando un doppio album che riassume in forma superiore quanto accaduto fino a quel momento.

Songs In The Key Of Life e l’ultimo album di una scala reale sublime e sorprendente, senza precedenti. Un lavoro incredibile tra contaminazione e sperimentazione che non ha precedenti, a partire dalla dolcissima e memorabile Isn’t She Lovely? brano in cui Wonder celebra la nascita di sua figlia Aisha. La canzone inizia con un campionamento del pianto della bambina per poi proseguire su una melodia facilmente orecchiabile ma con vocalità difficilmente interpretabili per ogni comune mortale.

La canzone, musicalmente costruita su un II-V-I maggiore e su un II-V-I minore, è considerato un esempio di contaminazione di elementi jazz ed elementi pop. Benché il brano abbia avuto notevole popolarità, e sia tutt’oggi considerato uno dei più importanti della discografia di Stevie Wonder, esso fu pubblicato solo come singolo promozionale e quindi non poté mai entrare in alcuna classifica.

E poi c’è la mia preferita di sempre: Joy Inside My Tears. Arriva subito dopo Isn’t She Lovely? ,e per qualcuno potrebbe anche, per assurdo, essere una delusione. Ma non lo è affatto (ascoltate la bellezza di questo brano), proprio perché nessuna canzone di Songs In The Key Of Life lo è. Il brano è la sintesi perfetta di ciò che racchiude l’album: ingenuità e consapevolezze, ricordi d’infanzia, sogni proiettati nel futuro, primi amori o amori perduti o solo immaginati. Il cerchio della vita nella sua interezza insomma, che Joy Inside My Tears rappresenta in pieno come un piccolo gioiello che, anche se non ha avuto lo stesso successo di altri singoli pubblicati, rappresenta uno dei capolavori della produzione Wonderiana.

La perfezione – possibile? – si ripete anche nella facciata B, che si apre come si è chiusa la A, con il trascinante groove di I Wish, condotto da una delle linee di basso al Fender Rhodes più forti di sempre (su cui si appoggia il lavoro egregio di Nathan Watts), con Stevie che ci mette del suo anche alla batteria e ai vari layers di Arp 2600. E’ la prima traccia registrata per l’album e il primo singolo proposto: il testo batte sulla nostalgia dell’infanzia e dell’adolescenza (la sorella Renee interviene a sgridarlo: «You nasty boy!»), che i quattro fiati estendono sincopati ai quattro venti.

Per Knocks Me Off My Feet Wonder torna in modalità one-man-bandlove song costruita ad arte, senza sovradosaggi di zucchero, praticamente impeccabile contraltare e cuscinetto tra la canzone precedente e la successiva.

Oggi Pastime Paradise risente del tempo e dell’incatramata data da Coolio con la sua versione Gangsta, ma nel 1976 rappresentava un miracolo di arrangiamento multilivello, tra gli archi dello Yamaha GX-1 (obiettivo: Eleanor Rigby dei Beatles dieci anni dopo), l’indolente ritmo latineggiante, i sonagli e i cori degli hare krishna che si mischiano con quelli gospel.

In mano a Wonder anche un giochino idealmente innocuo sul ciclo delle stagioni come Summer Soft diventa un gioiellino, con esaltanti cambi di tonalità e l’organo di Ronnie Foster a soffiare sul fuoco. 

Una sontuosa linea di basso sintetica innerva le due sezioni di Ordinary Pain, la prima soft e westcoastiana con Stevie che prende le parti dell’innamorato scaricato (e dove si può permettere un coro comprendente Minnie RipertonSyreeta Wright e Deniece Williams) e la seconda superfunky ed east coast, dove un’ottima e appuntita Shirley Brewer risponde per le rime e mette in riga. Due zampate in una sola traccia.

Elton John ha ammesso di portarsi sempre dietro, ovunque vada, una copia di Songs InThe Key Of Life” e che ogni volta che lo ascolta, nonostante siano passati molti anni, riesce sempre a sorprendersi.  Whitney Houston ha preteso che il servizio fotografico per il suo “Greatest Hits”, avvenisse con il suddetto album come sottofondo.

Quando Songs In The Key Of Life vinse il Grammy come album dell’anno, Wonder non era presente. Si trovava in Nigeria per esplorare e conoscere le tradizioni africane. Al momento del verdetto era in collegamento video, ma la linea era molto disturbata. Quando Bette Midler pronunciò il nome del vincitore, cioè il suo, si fece appena in tempo a vederlo sorridere, poi il collegamento si fece terribile. Fu allora che Andy Williams, nelle vesti di presentatore, se ne uscì con la più imbarazzante delle gaffe: “Stevie, riesci a vederci?”.

Stevie Wonder è una leggenda musicale che sorvola e domina ogni epoca musicale, nella sua innata presenza e nella sua enorme duttilità capace di influenzare generi e artisti di ogni settore.

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