#TellMeRock, The Velvet Underground & Nico. I 58 anni dell’album che cambiò volto al rock

EDITORIALE – Fate caso alla data d’incisione, non di pubblicazione: rende The Velvet Underground & Nico ancora più straordinario di quanto non sia.

In una vicenda giovane come era quella del rock allora, anche pochi mesi contavano e l’anno che ci mise l’album a raggiungere i negozi – colpa dell’inesperienza di Andy Warhol , di una casa discografica incerta sul come gestire materiali così dirompenti, del complottare dietro le quinte di Herb Cohen, manager di Zappa, disposto a tutto pur di fare uscire prima i Mother’s Of Invention – non solo lo danneggiò enormemente sotto il profilo mercantile (l’hype che aveva salutato gli spettacoli multimediali dell’Exploding Plastic Inevitable, nettamente in calando), ma anche falsato la prospettiva storica.

Lo si colloca, come data di uscita, al 15 marzo 1967, e si sottolinea il suo essere antipodico al sentire generale che dette origine ai figli dei fiori e alla psichedelia, ma se lo si pensa come un disco del ’66 da un lato anticipa la psichedelia stessa (Venus in Furs), dall’altro è apparizione  aliena in un mondo che impiegherà quasi tre lustri a capire cosa l’avesse colpito.

A complicare l’enigma c’è un live dell’11 dicembre del 1965: data in cui i Velvet Underground tengono il loro primo show:  suonano come apertura per un gruppo chiamato The Myddle Class nell’auditorium della Summit High School nel New Jersey e propongono tre canzoni: There She Goes Again”, “Heroin” e “Venus In Furs”.

Il disco vive di un perfetto equilibrio tra tensione e rilascio, gioco di scatole in cui il folk metropolitano di Sunday Morning fa da apripista.

Prima opera leggendaria di questa omonima prima opera dei Velvet Underground con Nico, con la stessa Christa Paffgen, in arte appunto Nico, che avrebbe dovuto cantarla visto che già la interpretava dal vivo, perché la canzone fu eseguita live dal gruppo di Lou Reed e John Cale e poi registrata nel 1967.

All’ultimo momento, tuttavia, Lou Reed si impuntò e volle essere lui a cantarla, nonostante la ferma opposizione del manager Paul Morrissey, convinto che il potenziale della voce di Lou fosse di gran lunga inferiore a quello della voce di Nico. Alla fine vinse Lou Reed, che in qualche modo provò a ingentilire la voce, resa più femminea grazie al riverbero e a numerose sovra incisioni. Nico fu confinata alle backing vocals.

L’effetto finale è straniante, perché il suono si muove tra i due estremi della fiaba e del paesaggio spettrale. L’album è diventato tra i più importanti e influenti nella storia del rock. Come disse una volta Brian Eno, forse solo cento persone comprarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ognuno di quei cento è poi diventato un critico musicale o ha formato un gruppo.

Celebre la copertina, molti lo definiscono ancora oggi l’album della banana, per via della banana disegnata da Andy Warhol, che nella prima edizione si poteva sbucciare e sotto la buccia gialla c’era una banana rosa shocking che rimandava piuttosto esplicitamente al membro maschile, copertina stramba anche perché da nessuna parte era riportato il nome del gruppo o il titolo. C’erano solo la banana e la firma di Andy Warhol.

Femme Fatale contiene il martellamento alla Bo Diddley di I’m Waiting For a Man mentre c’è il rock n’roll a rotta di collo di Run Run Run che si colloca tra il psichedelico di Venus In Furs e la parata di chitarre scintillanti e circolari di All Tomorrow Parties.

Venus In Furs, la cui composizione risale al 1965, è la prima descrizione esplicita di un rapporto sadomasochistico padrone-servo mai apparsa in un brano di musica rock. Lou Reed si ritaglia il ruolo di spettatore che incita l’azione tra i due amanti, identificandosi prima con la dominatrice e poi con il suo fedele “schiavo”.

 L’ossessiva cadenza musicale evoca un clima morboso e perverso che ben si adatta alla scena descritta. Non manca però una nota malinconica nel finale, il gioco d’amore non è erotismo spensierato, ma un disperato tentativo di fuggire dalla monotonia dell’ordinario, da un’angosciata esistenza incanalata nei dettami di una vita borghese: «I am tired, I am weary / I could sleep for a thousand years / A thousand dreams that would awake me / Different colours made of tears» (Sono stanco, sono esausto / Potrei dormire per un migliaio di anni / Un migliaio sono i sogni che potrebbero svegliarmi / Colori differenti, fatti di lacrime). Solo attraverso il sogno è possibile evadere dal quotidiano, provando nuove sensazioni attraverso il dolore.

Il brano era un appuntamento fisso durante gli show dell’Exploding Plastic Inevitable, dove veniva eseguita dal gruppo mentre i ballerini Gerard Malanga e Mary Woronov, entrambi muniti di fruste, interpretavano i personaggi del testo.

L’incubotica Heroin precede il beat quasi in stile Byrds (in realtà un plagio di Marvin Gaye), di There She Goes Again e quello e la soffusa tenerezza di I’ll Be Your Mirror, conducono allo scontro tra viola stridente e voce recitante di The Black Angel’s Death Song e al tribale caracollare di European Son.  Dedica quest’ultima a Delmore Schwartz, maestro di poesia e di vita di Lou Reed che proprio in quel 1966 lasciava questo mondo per andare a cercare bar in altri universi.

Dobbiamo alla sua influenza testi da interpretazioni bibliche parola per parola: sipari di scapigliatura e sessualità deviata, donne fatali e vite drogate che per primi introducevano nel rock (Dylan veniva dal folk, gioverà ricordare), tematiche adulte e letterarie.

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