Tra una maschera e lo specchio

di Charles Laval

Elena osservava il suo riflesso nello specchio dell’ascensore mentre saliva al dodicesimo piano. Come ogni mattina, controllava che la sua maschera fosse perfettamente in ordine: il sorriso professionale, lo sguardo sicuro, la postura impeccabile. Era diventato un rituale quotidiano, questo momento di verifica prima di entrare in ufficio. A trentadue anni, aveva perfezionato l’arte di apparire esattamente come ci si aspettava che fosse: efficiente, competente, sempre sotto controllo. La maschera era diventata così naturale che a volte faticava a ricordare cosa ci fosse sotto. Ma quella mattina qualcosa era diverso. Forse era stata la strana conversazione con sua sorella la sera prima, o forse era semplicemente stanca di mantenere quella facciata perfetta. Per la prima volta da anni, si fermò a guardare davvero il suo riflesso, oltre la maschera. Nei suoi occhi verdi c’era una domanda che non aveva mai osato porsi: quanto della vera Elena era ancora lì, nascosta dietro quella perfetta facciata professionale? Il ding dell’ascensore la riportò bruscamente alla realtà. Le porte si aprirono sul familiare corridoio dell’ufficio. Elena si sistemò automaticamente la giacca e fece un passo avanti, ma si fermò un attimo prima di uscire. Nel riflesso delle porte che si chiudevano, colse un’ultima immagine di sé: per un istante, la maschera sembrò incrinarsi. La sera precedente, Elena era seduta sul divano del suo appartamento ordinatissimo, con un calice di vino rosso ancora intatto sul tavolino di vetro. Il telefono vibrava insistentemente: sua sorella Marta la stava chiamando per la terza volta. “Non ora,” mormorò Elena, fissando lo schermo che si illuminava nel buio. Ma qualcosa nella frequenza di quelle chiamate la inquietava. Marta, di solito così riservata, non era tipo da insistere senza motivo. Al quarto tentativo, rispose. “Pronto?” La sua voce professionale, controllata, era pronta a gestire qualsiasi emergenza. “Ho lasciato Marco.” La voce di Marta era rotta, grezza, autentica in un modo che Elena non sentiva da anni. “Mi sono stancata di fingere che tutto andasse bene.” Elena sentì qualcosa muoversi dentro di lei, come un vecchio ingranaggio arrugginito che riprendeva a girare. Sua sorella minore, quella che aveva sempre considerato la più fragile, aveva trovato il coraggio di spezzare una facciata di perfezione durata sette anni. “Come stai?” chiese Elena, e si sorprese di quanto meccanica suonasse la sua domanda. “Male. Bene. Non lo so.” Marta rise, un suono bagnato di lacrime. “Ma almeno sono io. Capisci?” Elena non capiva. O forse capiva fin troppo bene. Rimase in silenzio, mentre Marta continuava a parlare, a riversare verità che non aveva mai detto a nessuno. Di come si sentisse soffocare nel ruolo della moglie perfetta. Di come avesse paura di deludere tutti. Di come, alla fine, si fosse resa conto che stava deludendo soprattutto se stessa. “Tu sei sempre stata la forte,” disse Marta alla fine. “Come fai a essere così… così sicura?” La domanda colpì Elena come uno schiaffo. Si guardò intorno nel suo appartamento impeccabile, negli spazi vuoti tra i soprammobili accuratamente disposti, nel calice di vino intatto che rifletteva la sua immagine distorta. “Non lo sono,” sussurrò, ma sua sorella stava già parlando d’altro.

Quella notte, Elena non dormì. Per la prima volta da anni, si permise di sentire il peso della sua stessa maschera. E nella solitudine delle prime ore del mattino, una domanda iniziò a formarsi: quanto costa essere perfetti? La risposta la aspettava nello specchio dell’ascensore, il mattino dopo. La riunione delle dieci era sempre stata il momento in cui Elena brillava di più. In piedi davanti al consiglio direttivo, presentava i dati trimestrali con la precisione di un chirurgo e la grazia di una ballerina. Non una slide fuori posto, non un numero impreciso, non un’esitazione nella voce. Ma quella mattina, qualcosa era diverso. “Come potete vedere dal grafico,” Elena indicò lo schermo alle sue spalle, “il nostro indice di produttività è aumentato del dodici percento rispetto…” Si fermò. Per la prima volta in cinque anni di presentazioni, si fermò a metà frase. Dietro i volti attenti dei dirigenti, vedeva altro: maschere perfettamente calibrate come la sua. Il sorriso professionale di Garcia, che nascondeva il divorzio di cui nessuno parlava. Le spalle dritte di Morrison, che coprivano notti insonni passate a preoccuparsi per un figlio problematico. La voce ferma di Chen, che celava la paura per una diagnosi recente. Lo sapevano tutti. Conoscevano i segreti gli uni degli altri, ma continuavano questa elaborata pantomima di perfezione aziendale. “Elena?” La voce del CEO la riportò al presente. “Stai bene?” “Sì, certo.” La risposta automatica era già sulle sue labbra, ma qualcosa si ribellò. “In realtà… questi numeri non raccontano tutta la storia.” Un silenzio denso calò sulla sala riunioni. Elena sentì lo sguardo di tutti su di sé, mentre le sue dita stringevano la presentazione che aveva preparato con tanta cura. “Il dodici percento di aumento della produttività significa che le nostre squadre stanno lavorando al limite. Abbiamo tre dipartimenti con un tasso di burnout preoccupante. La gente sorride nei corridoi, ma…” “Questi sono problemi per le Risorse Umane,” interruppe il CEO, il suo sorriso perfetto che mostrava una piccola incrinatura. “Concentriamoci sui numeri.” Elena guardò i grafici sullo schermo, le linee che salivano verso l’alto come frecce trionfali. Erano belle, pulite, precise. Ed erano bugie. “I numeri mentono,” disse piano, quasi a se stessa. Il silenzio questa volta fu diverso. Più pesante. Più elettrico. Vide Morrison raddrizzarsi sulla sedia, Garcia abbassare lo sguardo, Chen toccarsi involontariamente il collo. Il CEO la fissava con un’espressione indecifrabile. “Forse dovremmo fare una pausa,” suggerì qualcuno. Elena annuì meccanicamente, raccolse le sue cose e uscì dalla sala. Le gambe la portarono automaticamente verso il bagno delle donne. Si chiuse in un cubicolo e, per la prima volta in anni, permise alle sue mani di tremare. Il suo telefono vibrò. Un messaggio di Chen: “Caffè dopo il lavoro?” Elena fissò lo schermo, il cuore che batteva forte. Una crepa si era aperta nel muro perfetto del suo mondo professionale. E attraverso quella crepa, inaspettatamente, filtrava un raggio di luce. Elena sedeva alla sua scrivania, fissando il riflesso distorto del suo viso nello schermo nero del computer. Era passata una settimana dalla riunione, e ogni mattina si svegliava con la stessa domanda: chi sono io, realmente, in questo posto? Le email si accumulavano nella sua casella di posta. Alcune erano velate avvertimenti dal reparto HR sulla “necessità di mantenere un approccio professionale nelle presentazioni”. Altre erano messaggi di sostegno discreto da colleghi che non aveva mai considerato davvero prima: un link a un articolo sul burnout aziendale da Morrison, un invito a pranzo da Garcia. Il CEO l’aveva convocata nel suo ufficio il giorno dopo la riunione. “Sei una delle nostre migliori risorse, Elena,” aveva detto, la voce gentile ma ferma. “Non vorremmo perderti per… questioni personali.” Non era una minaccia diretta, ma il messaggio era chiaro: c’era un prezzo da pagare per l’autenticità. Eppure, per la prima volta in anni, Elena respirava più liberamente. Come se quella piccola crepa nella sua maschera professionale avesse lasciato entrare dell’aria fresca in un ambiente stagnante. “Non posso tornare indietro,” sussurrò al suo riflesso sullo schermo. “Ma come vado avanti?” Il suo telefono si illuminò con un messaggio di sua sorella Marta: “Come stai?” Due parole semplici, ma cariche di significato. Elena ripensò alla loro conversazione di quella notte, a come il coraggio di sua sorella avesse innescato qualcosa in lei. Aprì un nuovo documento sul computer e iniziò a scrivere: Proposta per un Nuovo Approccio alla Produttività Aziendale. Le dita si muovevano sulla tastiera con urgenza, mentre le parole fluivano: trasparenza emotiva, spazi sicuri per il dialogo, metriche di benessere oltre ai numeri. Stava costruendo un ponte tra i due mondi che abitava: quello dell’efficienza aziendale e quello dell’autenticità umana. “È un suicidio professionale,” mormorò, ma continuò a scrivere.

A pranzo, invece di mangiare alla sua scrivania come al solito, Elena si alzò e si diresse alla caffetteria. Vide Chen seduta da sola e, dopo un momento di esitazione, si avvicinò al suo tavolo. “Posso?” chiese, indicando la sedia vuota. Chen alzò lo sguardo, sorpresa. Un sorriso genuino le illuminò il volto. “Certo.” Si sedettero in silenzio per qualche minuto, due donne che per anni si erano scambiate solo sorrisi professionali nei corridoi, entrambe portando il peso delle loro maschere. “Sai,” disse infine Chen, giocando con il suo caffè, “ho un appuntamento in oncologia venerdì.” La confessione, così semplice e così pesante, cadde tra loro come una pietra nell’acqua. Elena sentì la sua maschera professionale che la spingeva a dire qualcosa di appropriato, di misurato. Invece, allungò la mano e la posò su quella di Chen. In quel momento, capì che forse la vera domanda non era come sopravvivere professionalmente, ma come restare umani in un sistema che richiedeva di non esserlo. Elena fissava il messaggio di Marco, l’ex marito di sua sorella, ancora aperto sul suo telefono: “Ho bisogno di parlare con qualcuno che capisce. Possiamo vederci?” Un tempo, avrebbe ignorato il messaggio. O peggio, avrebbe risposto con qualche frase di circostanza, mantenendo quella distanza professionale che aveva trasferito dalla sua vita lavorativa a quella personale. Dopotutto, le rotture sono affari privati, e lei era brava a tenere i confini. Ma qualcosa era cambiato. “Caffè da Giulio tra un’ora?” digitò, prima di potersi pentire. Il locale era quasi vuoto quando Marco arrivò. Elena lo osservò mentre si avvicinava: la cravatta allentata, i capelli spettinati, gli occhi stanchi. Non era l’uomo impeccabile che ricordava dalle cene di famiglia. “Grazie per avermi incontrato,” disse lui, sedendosi. “Marta dice che stai… cambiando.” Elena sentì una fitta di irritazione. “Ne parlate ancora?” “No, cioè… me l’ha detto prima. Quando… quando ha deciso di andarsene. Ha detto che sua sorella maggiore le aveva insegnato a essere forte, ma che forse essere forti non significa essere perfetti.” Le parole la colpirono come uno schiaffo gentile. Era vero: per anni aveva mostrato a Marta un modello di forza basato sul controllo, sulla perfezione apparente. E Marta, nel suo atto di “debolezza”, aveva dimostrato più coraggio di quanto lei ne avesse mai avuto. “Non sono mai stata forte come pensavi,” disse Elena, sorprendendosi della propria onestà. “Ho solo… costruito dei muri molto alti.” Marco la guardò come se la vedesse per la prima volta. “Lo so. Anch’io l’ho fatto. È per questo che Marta se n’è andata. Non sopportava più di vivere con un fantasma.” Rimasero in silenzio, due persone che per anni si erano conosciute solo attraverso le loro maschere, ora sedute davanti a caffè che si raffreddavano, scambiandosi verità scomode. “Come stai, veramente?” chiese Elena, e questa volta la domanda non era una formalità. Marco aprì la bocca, probabilmente per dire “bene”, ma qualcosa nel modo in cui Elena lo guardava lo fermò. E iniziò a parlare. Davvero.

Quella sera, tornando a casa, Elena si fermò davanti al portone del suo palazzo. Il suo telefono mostrava tre chiamate perse di sua madre – probabilmente preoccupata per le voci sul suo “strano comportamento” al lavoro – e un messaggio di un vecchio amico che non sentiva da anni. Guardò il suo riflesso nella vetrata dell’ingresso: la donna che vedeva non era più così perfetta, ma sembrava più reale. Le sue relazioni stavano cambiando, alcune si stavano sgretolando, altre si stavano approfondendo, nuove stavano emergendo. Era spaventoso. Era liberatorio. Entrando in casa, per la prima volta in anni, non sistemò le scarpe perfettamente allineate nell’ingresso. Le lasciò dove erano cadute, un piccolo atto di ribellione contro la sua stessa tirannia della perfezione. Il suo telefono vibrò di nuovo. Questa volta era Chen: “Grazie per oggi. Per essere stata lì. Per essere stata vera.” Elena sorrise al messaggio. Forse era questo il vero paradosso: più permetteva a sé stessa di essere imperfetta, più le persone si avvicinavano. Più mostrava le sue crepe, più luce entrava.

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