Nota a cura de La Basilicata Possibile
POTENZA – La vicenda Stellantis non è, affatto, un affare privato e non riguarda soltanto i gruppi industriali (Fca-Psa) che lo hanno concluso.
È bene che lo sappia il ministro Giorgetti che, alle commissioni riunite del Parlamento nei giorni scorsi, ha propinato un panegirico a proposito di autonomia e centralità dell’impresa assolutamente inconcepibile nei tempi che attraversiamo.
Dal modo in cui il governo in carica gestirà e programmerà l’uscita dalla crisi Sellantis dipende invece la possibilità che l’Italia conservi il posto che occupa fra i grandi Paesi industriali.
· I lavoratori di Melfi hanno già dato. Dovrebbe ricordarlo chi – governo nazionale e regionale – ha ‘scortato’, meno di due anni fa, una improbabile passerella mediatica alla Fca di Melfi proprio quel management responsabile di aver ridotto il gruppo nelle condizioni in cui oggi si trova: disinvestimento in nuovi modelli e nuove tecnologie, assenza di ricerca e sviluppo sulle motorizzazioni innovative e sostenibili.
Tutto questo è accaduto poco prima che si elargissero generosi prestiti Covid – a condizioni inaccessibili ai comuni mortali – a un gruppo (Exor cassaforte della famiglia Agnelli) che tutti sapevano in procinto di abbandonare l’industria, per giunta, prossimo beneficiario di una lauta distribuzione di dividendi realizzata al riparo delle insidie del fisco italiano.
· È impensabile che le politiche industriali di questo Paese possano ancora essere lasciate alle ‘cure’ di costoro. È necessario invece che la mobilitazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali riesca, nelle prossime settimane, a mettere tutti – governo e padronato – davanti alle loro responsabilità. Melfi si salva solo se l’Italia si batte per conservare il suo ruolo di grande Paese manifatturiero europeo, a partire dal settore dell’automotive. Il resto è vuota chiacchiera, un film già visto destinato ad accompagnare la chiusura degli stabilimenti italiani uno per volta, il ridimensionamento di Melfi e, quindi, l’asfissia della Regione Basilicata e dell’intero Mezzogiorno (che ospita il grosso della produzione automobilistica nazionale).
· La tecnica secondo cui le perdite si socializzano e i profitti si privatizzano ha una storia antica nel nostro Paese. Abbiamo, per anni – e inutilmente – elargito risorse a chi ha sistematicamente disinvestito. Non è più possibile fare omaggi al primo che passa, né nazionalizzare bidoni vuoti perché negli anni sapientemente svuotati. Serve invece impegnare una quota rilevante delle risorse che l’Italia destinerà al suo recovery manifatturiero, condizionandolo a produzioni sostenibili e innovative orientate alla mobilità collettiva, a nuove motorizzazioni e combustibili.
· A queste condizioni un governo che si rispetti può negoziare anche forme originali d’impegno pubblico e d’ingresso nel capitale di un nuovo grande player europeo – e non soltanto francese – che riposizioni gli stabilimenti italiani in una strategia industriale di lungo respiro e da misure di sostegno mirate.
· In un contesto in cui anche l’automazione spinta dei processi produttivi (promossa anche con i fondi pubblici di Industria 4.0) richiederà sempre meno manodopera, il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (nel 2020, fonte OCSE, la media europea era già di 30 settimanali, 27 in Olanda, 26 in Germania) non può essere ulteriormente ignorato.
Il recovery plan – tutti lo dicono – è una grande occasione di ristrutturazione: coglierla può farci uscire rafforzati dalla crisi. Nulla però deve restare come prima: la condizione essenziale perché si attinga al portafoglio pubblico deve essere, come raramente succede in Italia, la salvaguardia rigorosa della vita, della dignità e del reddito di chi lavora. Senza politiche industriali credibili e difesa intransigente del lavoro, l’Italia uscirà dalla pandemia più debole e più divisa, sull’orlo di un baratro economico e sociale di proporzioni mai viste. Se non ora quando?