EDITORIALE – Pietro e Minicuccia aspettano da un giorno all’altro l’arrivo del messo comunale con la chiamata al servizio militare per Angiulinu, che non vede l’ora di sottoporsi alla visita medica di leva e di essere dichiarato idoneo. Il giovane è impaziente di conoscere nuovi orizzonti, di fare esperienze stimolanti e di avere contatti con persone diverse da quelle con le quali è costretto a vivere.
I genitori, invece, temono per una eventuale chiamata alle armi. Lina ha parlato loro di un certo Mussolini, capo del governo fascista e alleato di un capo tedesco, un certo Hitler, che ha mire espansionistiche in Europa e che potrebbe convincere l’Italia ad entrare in guerra.
La vita a Mazzaredda è appena sfiorata dai grandi eventi storici e politici che si susseguono negli anni 40-45. Arriva notizia di un bombardamento avvenuto in paese il 7 settembre 1943. Qualcuno racconta che sono andate distrutte alcune abitazioni e sono morte diverse persone.
Le vicende quotidiane, legate agli avvenimenti stagionali ed alle problematiche familiari, assorbono completamente le famiglie di Mazzaredda, dando la sensazione che non esista altro al di fuori del loro ambiente circoscritto e delimitato da montagne e da grandi distese verdeggianti, poste a salvaguardia di una vita pacifica e priva di eventi straordinari e destabilizzanti.
E’ pieno inverno, una gelida mattina di gennaio, quando zio Pascale non si sveglia più. E’ passato dal sonno alla morte: il suo cuore malato ha improvvisamente cessato di battere, non procurandogli la pur minima sofferenza. La sua Filuccia, distesa al suo fianco, non si accorge di nulla, sospesa nel suo mondo irreale. Rinuccia, svegliandosi e non sentendolo respirare con affanno, si avvicina e lo tocca: le sue mani sono gelate, nel viso pallido è stampato un leggero sorriso. Vorrebbe urlare ma si trattiene per non spaventare mamma Filuccia. Esce e corre nella neve per chiamare la vicina di casa che abita poco distante. In poco tempo la notizia si diffonde in tutta la contrada. Accorrono subito Minicuccia, Pietro e i loro figli che, inginocchiati accanto al letto, piangono ed accarezzano il viso e le mani di quell’uomo buono, generoso, grande lavoratore, che ha vissuto la sua esistenza sempre in pace con se stesso, con gli altri e con Dio.
Rinuccia, pur affranta e abbattuta dal dolore, si mostra energica e risoluta. Aiutata dalle donne del vicinato, si dà da fare per sistemare Filuccia accanto al fuoco e per vestire il morto. Nella bara, preparata da Pietro e da altri amici con varie assi di legno, vengono messi la biancheria e gli oggetti cari all’estinto.
Durante la veglia alcune donne specializzate e gli stessi familiari “cantano il verbo”, cioè lamentele in versi, di questo tipo:
“Tata miu… m’hai abbandunatu… m’hai lassatu. Morte traditura…chi m’hai fattu…m’hai livatu a tata miu” (63).
Intanto gli uomini si organizzano per il trasporto della salma in paese. La neve è tanta e in parte ghiacciata. Si pensa di legare la bara ad una scala e di lasciarla scivolare tirandola con delle funi. A Pecorone troveranno Nandino con il carro funebre.
Al ritorno dal funerale, le donne della contrada, per dimostrare solidarietà e vicinanza, si occupano del “cunsulu”: preparano da mangiare per tutti i familiari. Questa usanza si protrae per una settimana, stabilendo dei turni. Si portano le pietanze in un grande cesto insieme a tutti gli arredi necessari per apparecchiare la tavola. Dopo aver pranzato, parenti ed amici recitano il rosario. Per alcune sere, prima di andare a letto, si prepara una “buffettina” con il pane, un bicchiere di acqua e una candela accesa, perchè si pensava che il morto avesse bisogno di mangiare e bere. Per un mese la famiglia osserva il “luttu strittu”: gli uomini non fanno la barba e mettono al braccio una larga fascia nera; le donne si vestono tutte in nero, coprendo la testa con lo scialle.
Filuccia non si rende conto di nulla. E’ ormai completamente assente: non riconosce più nessuno, mangia se è imboccata e rimane per ore con gli occhi chiusi. Rinuccia l’assiste amorevolmente. Vivrà per altri cinque anni.
Minicuccia e Pietro non sono più i giovani belli e spensierati. Il tempo li ha trasformati, ha mutato il loro aspetto, ha mutato i loro bisogni e la percezione delle cose che li circondano. I loro figli si sono sposati ed hanno tutti una famiglia numerosa, ad eccezione di Mattiucciu, che, aiutato dalla maestra Lina, ha frequentato in paese l’Istituto tecnico e si è diplomato. E’riuscito a costituire un piccola società che si occupa di impianti elettrici e lavora a pieno ritmo. Ha da poco conosciuto una brava ragazza e presto convoleranno a nozze.
Nel decennio 1960-70 i protagonisti di questa storia, zia Minicuccia e zio Pietro, sono ormai due simpatici vecchietti che vivono una pacifica esistenza nella loro casa a piano terra, circondata da alberi secolari, che danno ombra l’estate e l’inverno proteggono dalla pioggia e dal vento impetuoso che soffia sulla collina.
La vita degli uomini può essere paragonata al corso dell’acqua.
Da giovani siamo un torrente di montagna, scendiamo a valle irruenti e impetuosi. Saltando tra i massi, creiamo cascate, coinvolgiamo e trasciniamo con noi ogni cosa. Dalle cime alla valle, l’aria si riempie del nostro rumore assordante.
Un giorno però diventiamo dei fiumi di pianura, placidi, gonfi, pigri e non produciamo più alcun suono, se non il fruscio che fa il vento quando accarezza la chioma degli alberi.
FINE