EDITORIALE – Questa storia, di cui sono l’autrice, è inserita nel libro sul dialetto “Jennu venennu…buttuni cugliennu…” che ho scritto insieme alle amiche Pina Calcagno e Rita Galietta.
E’ un racconto di pura fantasia, che vuole ricordare uno spaccato di vita locale risalente ai primi decenni del secolo scorso, con uno scopo ben preciso: fare conoscere e valorizzare antiche tradizioni ed abitudini, detti e proverbi dei nostri avi.
Conoscere il passato, la storia di chi è vissuto prima di noi è un’esigenza di ogni popolo e di ogni persona, nell’ottica di un confronto tra il proprio “pezzo” di vita e la visione di una realtà remota che ci appartiene. Stendere un filo di continuità tra il presente e il passato permette di conoscersi e di riacquistare quella parte di sè, che è rappresentata dal legame indissolubile con le proprie radici.
La storia narra la vita di zio Pietro e di zia Minicuccia, due simpatici vecchietti che, nel decennio 1960-70, vivono una pacifica esistenza in un angolo sperduto di Mazzarella, una sperduta contrada di Lauria.
Zia Minicuccia ha cresciuto una nidiata di figli, nove per la precisione, ora tutti sposati: Michelina, Angiulinu, Filuccia, Biasino, Rusina, Catarinuccia, Matalena, Ndoniu, Mattiucciu.
La loro casa è un fabbricato a piano terra, circondato da alberi secolari, che donano ombra l’estate e proteggono, l’inverno, dalla pioggia e dal vento impetuoso che soffia spesso sulla collina.
Le loro giornate si susseguono sempre uguali, ma non è stato sempre così nel passato, quando, giovani e belli, si apprestavano a coronare il loro sogno d’amore.
È una splendida giornata di primavera. Minicuccia, 17 anni, si prepara per recarsi in chiesa insieme alle sorelle ed alla mamma. Il vestito rosa corallo che indossa non è nuovo, ma della sorella Rinuccia alla quale va stretto al seno, sviluppatosi negli ultimi mesi. Essendo più alta, Minicuccia ha provveduto ad allungarlo con un merletto che ornava un’antica camicia da notte della nonna Petronilla.
Minicuccia è proprio bella: alta, slanciata, un viso dall’ovale perfetto, incorniciato da una folta chioma di capelli corvini e ricci, a guisa di “tuppo”, sulla nuca, che le numerose forcine non riescono a trattenere, liberando alcune ciocche ribelli che ricadono morbide sulle spalle erette e larghe.
L’abito, un po’scollato, non piace a mamma Filuccia che trova una scusa per dirle: “Mittiti ‘u sciallu : a ‘u primu friddu nun ti vesti e a ‘u primu cavudu nun ti spuglià”. Minicuccia non vorrebbe coprire le sue belle forme con quello scialle nero della nonna ormai logorato dall’uso di almeno tre generazioni. Ma non si può disobbedire. In silenzio, indossando lo scialle, sussurra a Rinuccia: “Attacca ‘u ciucciu adduv’ dici ‘u patrunu”.
Il percorso dalla contrada alla parrocchia, rigorosamente a piedi, offre ai giovani l’occasione di socializzare con altri coetanei e di fare nuove amicizie, agli adulti di scambiarsi pareri e consigli sui lavori dei campi, sull’andamento delle stagioni e sulla vita familiare. A proposito dei discorsi sul tempo, un detto che spesso gli anziani, chiacchierando, ripetono è: “Quann’ Sirinu si mitti ‘u cappucciu, vinniti ‘a vacca e accattiti ‘u ciucciu; quann’ Sirinu si mitti ‘a cappa, vinniti ‘u ciucciu e accattiti ‘a vacca”.
L’allegro e vociante gruppo giunge in paese: i giovani camminano avanti, distanziati di poco da nonni, zii e genitori.
E’proprio una domenica, in chiesa, che Minicuccia incrocia, guardando verso la navata di sinistra, lo sguardo di un giovane, che non le toglie gli occhi da dosso per tutta la durata della messa. Quel giovane è Pietro, un trecchinese, ospite, quel giorno, di lontani parenti, tra l’altro amici della famiglia di Minicuccia.
All’uscita dalla chiesa, baci ed abbracci tra le due famiglie amiche mettono in risalto il profondo legame che le unisce. In disparte, Pietro osserva. Si decide, poi, di andare a bere un bicchiere di vino ed a mangiare qualcosa nella trattoria di Cicchino, dietro la chiesa, che si riempie via via dei clienti della domenica che, dopo la messa, si fermano per “ ’u rupp’ diunu”, prima di affrontare il viaggio di ritorno a piedi verso le proprie contrade. E’ proprio il caso di dire: “prima ‘nda chisia cu li santi e pu ‘nda taverna cu li mangiuni”.
L’incontro è inevitabile e fatale! I due giovani continuano a guardarsi, si scambiano anche qualche parola sotto lo sguardo attento di mamma Filuccia che, tornando a casa, rimprovera la figlia e, minacciosa, le chiede: “Cu era quiddu? Hai fattu unu parla parla”. “Era unu d’a Tricchina” risponde timida Minicuccia. E mamma Filuccia: “Cu ha persu ‘a vintura va a Tricchina e si ‘nzura!”.
L’estate, quell’anno particolarmente calda, trascorre tranquilla, scandita dai consueti ritmi: sveglia all’alba per il pascolo degli animali, per mungere dentro le stalle e per preparare latte e formaggi; riposo obbligato nelle ore di calura all’ombra di maestose querce allietate da allegri cinguettii di uccelli e dal frinire ininterrotto delle cicale.
A metà mattinata, immancabile e puntuale: il “rupp’diuno”, una sorta di abbondante colazione (a base di pane e formaggio, salame, polenta), consumato spesso nei campi, in particolare durante la mietitura.
Nella contrada, tutti conoscono la famiglia di Minicuccia e ne apprezzano le doti di laboriosità e di grande generosità. Chiunque entra nella loro casa non può esimersi dal mangiare un boccone con loro. Mamma Filuccia è subito pronta a preparare la “buffettina”, un piccolo tavolo su cui vengono posti pane, formaggio, salame e un buon bicchiere di vino. Se l’ospite, per pura cortesia, accenna ad un diniego, Filuccia è pronta a dire: “A casa ‘i pizzindi nun màngunu stozzi”.