Un piccolo mondo. Una storia per ricordare (Puntata n°2)

EDITORIALE – E’ tradizione che in piena estate, il quindici agosto, si trascorra l’intera giornata all’aperto, in compagnia di parenti ed amici. Vi è un posto, chiamato “’U pisciulunu”, dove le famiglie, sin dal giorno prima, portano tutto l’occorrente per preparare il pranzo (tripanu, cavudaru, usciaturu, cucchiari e cucchiaredde, tavuliddi, lag’naturi, sartanie e sartaniedde, furcini, curtiddi, sinali, sparicedde, tuvagli”) . 
Il luogo è incantevole. Alberi secolari donano ombra ad un grande spiazzo erboso trapunto di fiori variopinti a guisa di un tappeto verde finemente ricamato. Poco più in alto, a pochi metri di distanza, un ruscelletto dalle acque fresche e limpide inizia la sua ripida discesa, sgorgando da una sorgente nascosta nell’incavo di una roccia completamente coperta di edera. Le acque lambiscono lo spiazzo e, rumoreggiando allegramente, dopo un salto di qualche metro, si adagiano tranquille su un letto pianeggiante. Continuando la loro corsa a valle, passano sotto piccoli ponti di fortuna dai quali si gode un panorama splendido. Il ruscello, chiamato “’U pisciulunu” ha dato il nome alla località tanto amata dagli abitanti della zona. 

L’estate del 1910 rimarrà indelebile nel ricordo di zio Pietro e di zia Minicuccia. 
Il 15 agosto i due giovani si ritrovano all’alba, insieme ad altri coetanei, a “ ‘U   pisciulunu”. Gli amici del paese hanno invitato Pietro ad unirsi a loro nella scampagnata a Mazzaredda.

Un vociare allegro anima lo spiazzo. I giovani si danno da fare per raccogliere la legna: bisogna accendere il fuoco per cuocere le varie pietanze. Si cerca in varie direzioni, singolarmente ed a piccoli gruppi. Pietro e Minicuccia si ritrovano soli in una radura disseminata di sterpi e di rami secchi.
I primi raggi del sole, filtrando attraverso le folte chiome degli alberi, creano dei riflessi e dei giochi di luce straordinari. I due giovani si fermano incantati ad ammirare quel meraviglioso spettacolo della natura. Si sorridono. Pietro accarezza la testa di Minicuccia, con delicatezza, proprio lì dove un raggio di sole fa brillare di riflessi iridescenti una ciocca della chioma corvina.
 Dopo un intenso e prolungato sguardo, si ritrovano stretti in un abbraccio che dona loro sensazioni indescrivibili, mai provate….
Una voce da dietro ad un cespuglio li riporta alla realtà. Sono due amici che, ridendo, sussurrano: “Quann’ nun g’è a gatta, ‘u surgiu abballa”.
Minicuccia si allontana, vergognosa e spaventata, mentre Pietro si mette subito a raccogliere la legna, fingendosi calmo. Il suo cuore, invece, batte a mille, le mani tremanti hanno difficoltà persino a legare le fascine che man mano ammucchiano ai piedi di un albero. Con il loro carico ritornano nello spiazzo, dove si sta già sistemando la legna tra due grosse pietre sulle quali verrà poggiato “’u cavudaru”. 
Intanto arrivano gli adulti: genitori, zii, nonni. Mamma Filuccia cerca subito con lo sguardo Minicuccia e, tranquillizzatasi, le dice: “Aggia turnà a casa, m’aggiu scurdatu li frittuli du purcu pi cunzà li frascatul’. Sulu io secciu adduvi stanu” . Poi, incamminandosi, aggiunge: “Cu nun ha cirviddi, ha gamm’”.
La giornata trascorre in grande allegria. Si mangia e si beve ininterrottamente fino al tramonto. A sera, alla luce del fuoco e della luna piena, si improvvisano le danze, seguendo il ritmo delle suonate del “mandacetto” . 
L’estate prosegue con le sue lunghe ed afose giornate fino a metà settembre, quando iniziano le prime piogge, che irrorano un terreno ormai da tempo reso asciutto ed arido dalla lunga siccità. Iniziano i nuovi lavori: le varie semine negli orti e poi, a seguire, la raccolta dei fichi, dei pomodori, la preparazione delle bottiglie e della conserva, la vendemmia, il vino.

L’Autunno dipinge la campagna di tinte calde e variegate, improvvisandosi un abile pittore che, con il suo pennello, spruzza qua e là colori dalle mille sfumature. 
Minicuccia e le sorelle, una volta a settimana, si recano alla sorgente del Pisciulone per lavare i panni. In questa stagione lo spettacolo che si presenta ai loro occhi è davvero incantevole. Il costone dal quale sgorga il ruscello è completamente ricoperto di vegetazione, con tonalità di colori che vanno dal verde all’arancione, dal giallo al rosso, dal marrone chiaro al marrone scuro, in un’alternanza di gradazioni di tinte che incantano anche la persona più sbadata e distratta.
È qui che le ragazze della contrada si ritrovano per assolvere al loro compito di lavandaie, ma anche per scambiarsi confidenze e consigli, per spettegolare ed anche litigare. E’proprio vero: “Li chiacchiri su’ come li cirase, una tira l’ata”. 
Le amiche di Minicuccia sono curiose di sapere chi è quel bel giovanotto presente alla festa del 15 agosto, in verità un po’ timido e scontroso, che ha avuto premure ed attenzioni solo per lei, non degnandole neanche di uno sguardo o di una parola. Minicuccia fa finta di non sentire, intenta a lavare e distratta dal rumore dell’acqua. Cicchina, una vicina di casa, invidiosa perchè ancora senza “zitu” a ventidue anni, con livore, dice alle amiche: “Nun ‘ng’è cchiu’ surdu ‘ i cu nu’ vo sente”.

In verità, Minicuccia da quel giorno non ha avuto più notizie di Pietro. Sperava tanto in una visita degli amici del paese in occasione della vendemmia, ma non erano venuti. A quei tempi non c’erano telefonini, nè tantomeno esistevano le chat o le videochiamate tramite Facebook o WhatsApp.
Minicuccia non può dimenticare quell’abbraccio nel bosco. Il ricordo risveglia in lei una grande emozione: nella sua vita non ha mai provato delle sensazioni  così forti ed intense!
Il tempo passa e sopraggiunge l’Inverno. Le serate trascorrono lente e monotone, specialmente per i giovani. Nelle umili e semplici case, genitori e figli si raccolgono intorno al focolare, che assolve ad una triplice funzione: illumina, riscalda e serve per cucinare. Spesso, per risparmiare, si fa a meno della lucerna ad olio o delle candele. A volte i nonni, mentre le donne rammendano o sferruzzano, raccontano storielle ai bambini, tramandate da antiche generazioni.
E’ una sera di gennaio, un sabato. La neve, caduta abbondantemente durante tutta la settimana, è stata in parte spazzata via da un forte vento di tramontana e sciolta dal sole, che finalmente è riapparso tra le nuvole in continuo movimento.
La famiglia si appresta a cenare. Mamma Filuccia ha preparato la polenta con “li      piparuli cruschi” , l’ha versata su un “tavuliddu” rotondo poggiato sulla buffettina. Sono tutti seduti in cerchio con la “furcina” in mano per mangiare.
E’ proprio in quel momento che bussano alla porta. 
Sono gli zii Biase e Catarina di Canicedda. Gli ospiti vengono accolti con grande entusiasmo e subito invitati a sedersi per mangiare. Zia Catarina fa qualche cerimonia, dicendo che loro hanno già cenato. Ma mamma Filuccia non vuole sentire ragioni e, aggiungendo sedie e furcini, dice: “Adduvi mangiano dui mangiano puru tri”.         
La visita degli zii ha uno scopo ben preciso. Zia Catarina, con il suo fare sbrigativo e senza indugi, si rivolge a tutta la famiglia, esordendo con questo detto: 
“’U mmasciataru nun porta capu rutta”. Nui simu vinuti pi vi purtà ‘na masciata ca vi manna Cicchinu, ‘u figliu di zia Mariuccia e di ziu Pippinu ‘u Tricindu. Au giuvane li piace Minicuccia e si ngì vulera fa zitu. È ‘nu bunu partitu. È figliu unicu, tene tanta robba: terre, ‘a casa, ‘na cinquantina tra vui, ciucci, crapi, aini e pecuri” .
Ad un primo silenzio, segue un brusio da cui emerge, chiara, la voce di papà Pascale, molto legato a Minicuccia (la considera ancora una bambina):
“Cu ‘u timpu e cu ‘a paglia maturano li nespule”.
 Mamma Filuccia è contenta: subito si alza e va a prendere una bottiglia di vino di annata per festeggiare. Tutti chiacchierano e bevono allegramente. Minicuccia, a testa bassa, trattiene a stento le lacrime, poi si alza e va dietro la tenda che divide la cucina dalla camera da letto. Finalmente le lacrime possono sgorgare! Piange in silenzio, con il viso affondato nel cuscino. 
Rinuccia la raggiunge e la conforta, poi le suggerisce di non dire nulla, perchè “a megliu parola è quidda ca nun si dici”. La invita a tornare in cucina ed a mostrarsi indifferente…poi si vedrà! 
Mamma Filuccia ha capito il comportamento della figlia e ne conosce anche la ragione. Il giorno dopo, con tono deciso, le dice: 
“Tu tini sempe ‘n capu quiddu tricchinaru, pi quistu nun vui a Cicchinu. Si tutti l’aciddi canuscerunu ‘u granu, nun si facera cchiù pane”. 
Cicchinu avrebbe dovuto aspettare qualche giorno per una risposta. Mamma Filuccia intanto avrebbe convinto la figlia a non rinunciare a quell’ottimo partito.

CONTINUA…

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