“Un plebiscito di tutti i giorni”: breve viaggio nell’Europa delle insolite identità nazionali

Uno dei saggi più stimolanti in cui mi sono imbattuto recentemente si intitola Atlante delle Micronazioni (Quodlibet, 2015) e suo autore è uno dei giornalisti più bravi di Radio 3 Rai, Graziano Graziani. La sua scrittura agile ci conduce in un curioso viaggio nel fenomeno micronazionale, ossia di quelle realtà passate e presenti che hanno fatto della rivendicazione identitaria su un’effimera porzione di territorio la propria ragione esistenziale. Così Graziani ci prepara alla lettura: «di motivi per fondare una nazione ce ne sono tantissimi: idealismo, goliardia, politica, persino l’evasione fiscale. Qui si raccontano i casi più strani e suggestivi di una pratica molto più diffusa di quanto ci si immagini, dichiarare l’indipendenza di una microscopica parte di territorio e proclamarsi re o presidente, almeno in casa propria. Pochi sanno, ad esempio, che oltre a San Marino e al Vaticano, esistono in Italia un paese e un’isoletta che vantano la sovranità assoluta sui propri territori, sulla base di diritti acquisiti prima dell’unità d’Italia; o che in Australia è stata fondata una nazione per tutelare i diritti degli omosessuali, mentre in Africa e in Sud America alcuni “stati inesistenti” hanno dichiarato l’indipendenza al solo scopo di emettere buoni del tesoro fittizi».

Le pagine ci svelano storie divertenti, a volte incredibili, come i casi italiani, alcuni più celebri (come quello del Principato di Seborga, in Ligura) e altri meno (pochi conoscono le vicende della Repubblica Rossa di Caulonia, in Calabria o, per restare nei nostri confini regionali, di quella dei Piani Sottani, in Basilicata). Storie con genesi diversa, ma accomunate dalla lotta per l’indipendenza dallo Stato italiano in nome del riconoscimento della propria libertà. Ma quello micronazionale è un fenomeno diffusissimo, soprattutto nel vecchio continente: per esempio, sulle coste meridionali della Gran Bretagna si battono per la loro indipendenza l’isola di Sark e il Principato di Sealand, quest’ultimo costituito su una vecchia piattaforma petrolifera. Non troppo distante da lì, in Danimarca, più specificamente nella sua capitale, Copenaghen, sorge il quartiere di Christiania, che costituisce una delle più consolidate esperienze di “liberazione” in chiave micronazionale di parti di città, al pari di Uzupis, il quartiere di Vilnius (capitale della Lituania) dichiaratosi “indipendente” in nome dell’arte e della creatività.  

il Principato di Seborga

Se le micronazioni rappresentano un fenomeno eterogeneo, che come ci ricordava Graziani può basare la propria origine nelle più svariate ragioni, L’Europa vanta anche una geografia delle piccole nazioni, di territori un po’ più grandi, posti solitamente ai margini continentali. Essi sono residuo di quella geopolitica novecentesca che seppe contenere determinati fenomeni grazie alla polarizzazione ideologica, riuscendo a tenere a bada le spinte identitarie di tipo autonomista, quando non proprio nazionalista. Molte delle regioni che hanno sprigionato forze di tal guisa alla fine del secolo sono poi riuscite ad affermare una propria indipendenza, in modo pacifico o violento. Ma tutta una serie di aree considerate “minori”, zone di frontiera tra gli stessi nazionalismi, anche per incapacità dovuta alle loro contenute dimensioni non sono riuscite ad affermarsi come veri e propri stati nazione. Questo, però, non ha frenato le loro pulsioni identitarie, che hanno dato luogo anche a conflitti particolarmente violenti. Oggi riescono ad affermare flebili sovranità territoriali, su cui con difficoltà si è cercato di costruire piccole nazioni, che vivono processi di sostanziale autolegittimazione, dato che non sono riconosciuti da nessuno, non godendo sotto il punto di vista diplomatico di quasi nessuna reciprocità. Paesi che di fatto non esistono anche se, tenacemente, cercano di affermare il contrario riproducendo a tutti gli effetti i riti e simboli su cui si basa l’identità nazionale. Bandiere, dogane, eserciti e monete (che solitamente valgono poco o nulla). Due sono i casi esemplari di cui vorrei parlarvi, ed entrambi appartengono all’area orientale, in quanto conseguenza della dissoluzione dell’impero sovietico: il Nagorno Karabakh-Artsakh e la Transnistria.

L’anno scorso ho avuto modo di fare un viaggio nel Caucaso, che in quanto area marginale del nostro continente (tanto che sarebbe più corretto parlare di zona eurasiatica) è ricca di zone animate da forti spinte separatiste e indipendentiste. La meta principale del mio peregrinare era proprio uno di questi territori, il Nagorno Karabakh, detto altresì Repubblica dell’Artsakh, una regione indipendentista schiacciata tra Armenia e Azerbaijan, che se ne contendono il controllo mediante un conflitto armato che dura dalla dissoluzione dell’Urss e che, a più riprese, ha causato la morte di circa trentamila persone, tra civili e militari. Ha avuto la sua fase più acuta tra il 1992 e il 1994, ma trattandosi di un conflitto non risolto, che si basa su un fragilissimo “cessate il fuoco” ripetutamente rinegoziato dai due paesi contendenti sotto mediazione russa, tende a riaccendersi periodicamente in scontri improvvisi, come quello di quattro giorni nell’aprile del 2016, che ha avuto come conseguenza ben duecento vittime. Le ultime tensioni sono invece di questa estate.

Il Nagorno-Karabakh (letteralmente la “montagna nera”) è una regione che geopoliticamente è da sempre appartenuta all’Azerbaijan: etnicamente, però, la sua popolazione è composta in grandissima maggioranza da armeni. Ecco la ragione delle sue rivendicazioni separatiste, le quali, se da un lato richiedono l’autonomia dal controllo del “regime petrolifero” di Baku, dall’altro non si pongono come fine ultimo l’annessione all’Armenia, da cui comunque vogliono rimanere regione separata. Il Nagorno, dunque, si sente nazione a tutti gli effetti, nonostante la sua bandiera sia in sostanza quella armena, da cui si distacca un triangolo, a rappresentare la propria differenza pur nell’unità etnica e culturale. L’Armenia è al momento l’unico paese sovrano ad accordare al Nagorno un riconoscimento di fatto (la guerra che ha interessato questa regione è stata combattuta dall’esercito separatista locale con il contributo decisivo di quello armeno): nessun altro membro della comunità internazionale gli accorda tale privilegio, anche perché in ambito di relazioni internazionali il Nagorno è comunque considerata una regione separatista dal suo “legittimo” possessore, l’Azerbaijan. Tanto è vero che anche su google maps i confini territoriali non appaiono marcati in evidenza, come avviene per tutti gli stati sovrani, ma sono comunque inglobati nell’estensione geografica azera.

il cartello che segna il confine (fittizio) tra Armenia e Nagorno Karabakh)

Questa complessa situazione ha però generato quelle particolarità che rendono il Nagorno un luogo interessante e insolito, tra l’altro molto poco conosciuto: si tratta di una regione grande più o meno quanto la Basilicata, che si sente nazione a tutti gli effetti. Ha una sua bandiera, come si diceva, una sua capitale (Stepanakert, che vive e si pensa come qualsiasi altra capitale di uno stato sovrano), un suo inno, delle sue frontiere, una letteratura nazionale, finanche una nazionale di calcio. Ad ogni modo, uno dei luoghi più singolari in cui misurarsi con la voglia di identità nazionale del Nagorno Karabakh-Repubblica dell’Artsakh è sicuramente la sua unica ambasciata presente fuori dai suoi confini, ovviamente localizzata a Yerevan, la capitale dell’Armenia: si tratta di un palazzo a due piani in un luogo anonimo alla periferia della città, dove opera un ambasciatore che però è tale solo nell’ottica del formale riconoscimento armeno, ma nei cui uffici è necessario recarsi per ottenere il visto di ingresso in Nagorno, al costo di circa una ventina di euro. La funzionaria che tratta dei visti chiede ai potenziali visitatori se vogliono che sia apposto come adesivo sulle pagine del passaporto, oppure semplicemente con una graffetta, in modo da rimuoverlo in caso di ingresso in Azerbaijan: questo perché quest’ultimo paese considera il Nagorno un suo territorio legittimo sotto occupazione armena e, forte del sostegno della comunità internazionale che riconosce questa posizione, vieta l’ingresso sul proprio territorio a tutti coloro che avessero sul passaporto il visto di ingresso in Nagorno, che per le autorità azere è un luogo in cui è proibito entrare.

Il palazzo del governo a Stepanakert, capitale del Nagorno)

Diversa è la situazione della Transnistria, che pur essendo un paese non riconosciuto dalla comunità internazionale, vive una situazione molto più pacifica con i paesi che la circondano, e che ne rivendicano a vario titolo il possesso. Anche il suo processo di separazione dal precedente controllo della repubblica di Moldavia non è stato indolore, ed è dovuto passare per un inevitabile conflitto (1992), anche se molto meno traumatico rispetto a quello che ha interessato il Nagorno. Si cominci col dire che il primo elemento di interesse di questa piccola nazione, con un’estensione territoriale di poco superiore a quella della provincia di Catanzaro, è la sua bandiera: è l’unica, tra i paesi sorti dalle ceneri dell’URSS, a conservare la falce e martello. Un elemento sicuramente insolito, dal momento che la disgregazione della federazione sovietica ha riacceso i sentimenti più ardentemente nazionalistici, che hanno fatto dell’iconoclastia socialista uno dei punti di forza nella costruzione delle loro nuove identità. La Transnistria è riconosciuta, a livello internazionale, solamente da altri tre paesi, che però sono piccole nazioni che vivono la stessa condizione apolide all’interno della comunità internazionale, in quanto realtà separatiste: si tratta del già citato Nagorno, dell’Abcazia e dell’Ossezia del Sud. Questa reciprocità è solo formale e sostanzialmente simbolica, dal momento che non esistono ambasciate di questi paesi in Transnistria e viceversa, non essendo i passaporti di questi paesi validi per viaggiare nel resto del mondo.

La bandiera della Repubblica Moldava di Pridniestrov, detta anche Transnistria)

La Transnistria è attualmente sotto il controllo di un governo filorusso, anche se recentemente è entrata in un’area di libero scambio con l’Unione Europea (anche se non esistono all’interno dello spazio politico transnistriano partiti europeisti, in quanto l’area rimane in un territorio strategico sotto controllo di Mosca, tanto è vero che anche la lingua ufficiale prevalente rimane il russo). La capitale del paese è Tiraspol, dove a una prevalente componente russofona si affianca una minoranza rumena, legata alla vicina repubblica di Moldavia e che costituisce una delle questioni ancora in negoziato con il vecchio governo di riferimento. Ma, a parte queste caratteristiche che accomunano la Transnistria a tanti altri territori nella stessa situazione, la sua caratteristica sta nel fatto che l’identità che ne viene rivendicata è strettamente legata al periodo sovietico: a Tiraspol è come se il tempo si fosse fermato, almeno in un certo senso, culturale e iconografico, mentre la sfera economica e dei consumi è fortemente influenzata dagli stili di vita del paese di riferimento, la Russia. Che ha fatto di questa regione separatista una sorta di giardino dei divertimenti, in cui fioccano sale da gioco e centri commerciali, e forte è anche il sospetto che qui si vengano a celare attività di riciclaggio. Eppure, il tutto è retto da una sovrastruttura in cui la fedeltà al Soviet sembra non essere mai tramontata. Anche qui, il calcio rappresenta un aspetto particolare, che si concentra attorno alla società dello Sheriff Tiraspol: polisportiva fondata da due ex agenti del KGB russo (in Transnistria, invece, i servizi segreti continuano ad avere questo nome) con interessi che travalicano il mondo del pallone, che per una singolarità tutta extra-politica gioca nel campionato moldavo dominandolo da anni, grazie anche a una potenza economica che è frutto del sostegno finanziario degli oligarchi russi.

La statua di Lenin davanti al palazzo del Parlamento a Tiraspol, capitale della Transnistria

Diceva il filosofo francese Ernest Renan, interrogandosi su che cosa fosse una nazione: un plebiscito di tutti i giorni. Ecco, un viaggio da quelle parti sarebbe una buona occasione per capire che cosa realmente intendesse dire.

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